passeggiata nei ricordi
Ai miei tempi ero molto più che viva, ero libera. Ma non si dice
Niente telefoni, prenotazioni, controlli, soldi. Solo una raccomandazione: se muori, ti ammazzo. Nostalgia di anni che furono
Abbiamo imparato, in tutti questi anni insieme, che tra le molte frasi impresentabili con i figli (ma in generale con tutti, per non farli morire di noia), “ai miei tempi” sta ai primi posti della classifica. Con la crescita, l’invecchiamento e gli psicoterapeuti molto agguerriti, la classifica si è infittita di cose complicatissime, compresa, a casa mia, la pronuncia non perfetta delle parole inglesi, o una eccessiva socievolezza con il proprietario del ristorante indiano (“mamma, stai esagerando”), ma “ai miei tempi” è sempre un terreno condiviso, e io sto molto attenta a non rivelare più niente di quel che accadeva ai miei tempi. Ho capito che è tutto una prova a carico, ho capito che da tutto, prima o poi, dovrò discolparmi. Adesso è estate, e ai miei tempi si partiva per il viaggio dell’estate della maturità senza avere prenotato niente, senza avere una carta di credito, senza che esistessero i telefoni cellulari, senza sapere neanche a grandi linee dove saremmo andati e quando saremmo tornati. Dove vai quest’estate? Non lo so ancora, ma parto domani con il treno. Ah bene, magari tra una settimana ti raggiungo, chiamami a casa di mia cugina in Calabria se trovi una cabina. E incredibilmente, ai miei tempi, dopo una settimana esatta ci si incontrava ad Amsterdam alla stazione. A proposito, ai miei tempi la stazione era un buon posto per dormire la notte nel sacco a pelo.
Una mattina mi ha svegliato un poliziotto, in Belgio, ma con molta delicatezza, ed era l’ora perfetta per alzarsi e fare colazione. Otto ore di sonno come non ne ho viste mai più, una felpa come cuscino e una fame meritatissima. Magnifiche notti nei parchi, a volte svegliati dall’irrigazione, ma tanto era estate e le magliette si asciugavano subito. E più soldi risparmiavi nel dormire, più giorni potevi stare in vacanza, più posti riuscivi a vedere. La gara era a chi tornava più tardi, dopo tutti gli altri: vinceva chi superava i trenta giorni e chi incontrava in viaggio più persone che conosceva, ma per caso. La prova era una fotografia, ma le fotografie con il rullino. Oggi sarebbe impossibile, oggi controllo tutti gli orari e vivo nel terrore che mia figlia non riesca a caricare il telefono e la riempio di adattatori per le prese e di power bank, e di preghiere: scrivimi, rispondimi, mandami dei vocali, mandami le foto.
Credo di lasciarla libera, e invece le sto addosso. Tutti ci stiamo addosso, in effetti, mentre ai miei tempi (scappate finché potete) l’accordo era: vi telefono io quando riesco, una volta ogni cinque giorni, ma state tranquilli vi scrivo delle cartoline. Ma dove vai? Ah, più o meno al nord, poi verso sud, ma torno quando finisco i soldi. E mia madre non rispondeva: ti geolocalizzo, ti faccio un bonifico, ti vengo a prendere, ti prenoto tutti gli ostelli. Diceva solo: se muori ti ammazzo. Era una buona raccomandazione. Anche i fidanzati, gli ex fidanzati, gli amici, i flirt, i conoscenti, i nemici, nessuno poteva davvero starci addosso: bastava dire sono a Praga, ciao. Al massimo poi qualcuno avrebbe riferito di averci visti ad Amsterdam in stazione, ma chi aveva voglia di confrontare le date? Tre giorni in più, due giorni in meno, non cambiava niente. Ai miei tempi sono partita per un mese perché soffrivo per amore, e in tutte le città d’Europa cercavo un’auto bordeaux, ma l’importante era non telefonare e non ho mai telefonato. Sono tornata a casa abbronzatissima, misteriosissima, e mia madre ha detto solo: sei viva quindi. Ero molto più che viva, ero libera. Ai miei tempi.