Il Figlio

Tredici giorni a segnare l'inseguimento tra due vite: padre e figlio. Un esordio

Giacomo Giossi

Il primo romanzo di Salvatore Toscano ha il sapore dello zibaldone e delle pagine di un diario. Un discorso intimo, quello tra padre e figlio, che diventa pubblico e universale

Quando il padre è scomparso, Salvatore era un bambino che aveva appena compiuto nove anni e ora che sta per compierne quarantuno si rende conto di stare per raggiungere l’età del padre: 14759 sono i giorni vissuti dal padre, 14746 i giorni vissuti da Salvatore al compimento del suo quarantunesimo anno. Di quei tredici giorni in un’immaginaria congiunzione temporale è fatto il libro di Salvatore Toscano, Gli stupidi e i furfanti  (Baldini+Castoldi). Un conto alla rovescia sotto forma di romanzo che Toscano muove come pagine di un diario, un discorso intimo che diventa pubblico e universale. Il racconto di una vita, la propria divenuta lo specchio obbligato di un’assenza, quella del padre. Passata a fare i conti con chi non c’è più: il padre diviene così un oggetto di elaborazione continua e obbligata. Il prisma attraverso cui interpretare la realtà, leggerne le giornate, le scelte e anche le contraddizioni, muovendo un pensiero tanto fisso quanto mimetico e ossessivo.

 

Ha il sapore dello zibaldone, l’esordio al romanzo di Toscano, proprio perché non segue un ordine di senso. Nessuna trama compone questi tredici giorni magici: le pagine si affastellano d’incontri e letture, di citazioni e di ricordi. La memoria diventa parte attiva di un discorso in continuo movimento, proprio come un impasto capace di rigenerarsi giorno dopo giorno, rivelando e mostrando un senso nuovo ad ogni cambiamento di forma. Al tempo stesso però questa assenza lascia sempre dietro di sé una traccia dolorosa, enorme e irriducibile. Un vero e proprio marchio a fuoco che segna più che le scelte, lo sguardo sulle cose e sul mondo. Non si tratta solo di  tristezza dolente che può segnare i momenti  di un’esistenza, ma una mancanza che priva di un confronto e lascia così sul campo pensieri interrotti, scatole chiuse i cui lucchetti sono sempre terribilmente difficili da scardinare.

Toscano agisce con il racconto sulla propria esistenza, lavora deformando e mettendo a fuoco il senso di un’inseguimento, di una passione così come il motivo di un gusto. Non è tanto il bisogno di darsi spiegazioni, ma quello di ritrovare in questo conto alla rovescia le sembianze di un’ombra che da sempre lo accompagna. Una somiglianza forte che spesso segna i figli con i padri, una somiglianza profonda che non appartiene alle apparenze, ma alla discendenza. Un obbligo da cui non ci si può sottrarre, magari anche ritrovandosi la mattina, appena svegli, con gli occhi stropicciati davanti allo specchio del bagno che tra nuove preoccupazioni e inedite rughe osservano il sorriso beffardo di un tempo che ritorna e compie il suo giro. Gli stupidi e i furfanti ha la forma di una vera e propri autobiografia che però vive attraverso l’obiettivo ottico di un padre in perenne equilibrio tra i ricordi e l’immaginazione del figlio, forme di naturale imprecisione eppure fortemente capaci di restituire una realtà. Le giornate di Salvatore si muovono in un doppio canale, la vita della propria famiglia in cui riprende forma la vita del padre e ovviamente la sua, quella dell’autore che anche di quel continuo ritornare è per forza di cosa fatta.

Un’indagine che mentre segue gli indizi che dovrebbero portare al padre, in realtà arriva direttamente al figlio: «Ogni quanto giorni si radeva? Mi sembra di poter risalire a una cognizione un po’ sospetta perché fin troppo precisa: faceva la barba un giorno sì e l’altro no, e la mattina in cui evitava l’incombenza restava a letto qualche minuto in più. Ma anche qui forse sto inventando». La memoria privata quale gesto pubblico e condiviso in cui l’immaginare diviene il modo con cui uscire dalla realtà mostrando così quello spazio sottile che sta sempre tra chi vive e chi non c’è più, un’ombra ristoratrice che ci accompagna giorno dopo giorno.

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