Il Figlio
Un figlio che lavora e la sensazione di essere stati scoperti
Mio figlio ha quindici anni, e per circostanze che riguardano il suo volere e le cose che gli piacciono, sta lavorando Vuoi rubarmi la scusa, il trofeo, il primato del lavoro? Non te lo permetto, ragazzino
Mio figlio ha quindici anni, e per circostanze che riguardano il suo volere e le cose che gli piacciono, sta lavorando. Non è sfruttamento del lavoro minorile da parte di una madre sciagurata, lo preciso perché non sempre si può contare sulla serenità d’animo dei lettori, soprattutto d’estate: non ho costretto mio figlio a lavorare per pagarmi un lifting, insomma, ma se devo essere sincera l’ho minacciato varie volte di mandarlo a lavorare quando si rifiutava di studiare anche solo un minuto. Le mie minacce sono state molto efficaci, tanto che lui ha chiesto di poter realizzare il sogno di diventare benzinaio appena compiuti i diciott’anni e di fare quindi, prima, dei tirocini alle pompe di benzina.
Invece a un certo punto mio figlio si è messo anche a studiare, a prendere voti altissimi, tanto che l’ho minacciato di non fargli più fare il tirocinio da benzinaio. Per un miracolo che io collego al lavoro che gli piace, ha moltiplicato le energie: è finita la scuola e lui ha iniziato a lavorare, ma in realtà lavorava anche non appena usciva da scuola. Io non lo chiamavo lavoro, dicevo: Giulio va al corso di teatro, Giulio va dal suo amico regista, Giulio non ha portato fuori il cane perché non è mai tornato a casa, Giulio si è addormentato alle sei del pomeriggio con la testa sopra la pizza. Giulio mi ha chiesto un prestito che promette di onorare non appena riceverà il suo primo compenso. Giulio sta giocando, insomma.
Giulio gioca, si diverte, balla, fa lo sbruffone, finché ha iniziato a dire, molto seriamente: oggi vado in ufficio, domani vado in ufficio, invece domenica mi riposo ma devo studiare. Poi ha iniziato a mandarci, all’ora di pranzo, foto di insalate di tonno mangiate alla scrivania, sotto il bocchettone dell’aria condizionata. E’ stato lì, davanti a quelle tristissime insalate delle tredici e trenta da adulto a dieta, che mi sono accorta che mio figlio stava davvero lavorando. Che non era diverso da me (io però le insalate non le mangio). Si alza la mattina, beve il caffè, si prepara fischiettando e cantando e va al lavoro in metropolitana.
Dovrei essere orgogliosa, anche perché lui è felice, invece sono stizzita. E non perché penso che gli stiano rubando l’infanzia, o che stia rischiando una delusione, e non perché penso che il mestiere di attore sia insidioso, frustrante, impossibile. Non perché voglio proteggere mio figlio dagli urti della vita. Ma perché avevo un primato, avevo una scusa, avevo un trofeo: il lavoro. Vuoi forse soffiarmelo, ragazzino? Non te lo permetterò.
Vuoi forse toglierci il gusto di lamentarci per i nostri stress, a cena, dicendoci con un sorriso che preferisci non andare al ristorante cinese perché oggi sei stanco, ti sei alzato alle sei e poi vuoi andare a dormire presto perché domattina devi arrivare in ufficio almeno trenta minuti prima? Non attacca, bello. Se non posso dire: aspetta un attimo sto lavorando, perché stai lavorando anche tu, allora dov’è il mio potere, dov’è la mia adultità?
Quella bella espressione idiota: un giorno capirai, mi è stata scippata all’improvviso. Mio figlio ha scoperto che cos’è una pausa pranzo, e la trova divertentissima. Ha scoperto che cosa sono le ferie e ha scelto di non farle perché gli farebbero perdere troppo tempo. Lo so che è una scusa per non venire in Grecia, lo so benissimo, ma quante volte io ho usato la stessa scusa? Non posso ragazzi, devo lavorare. Adesso che la usa lui con me, mi sento improvvisamente più scema che mai.