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Il Figlio

Paradiso: spaghetti con ketchup, madre single, figlia teen e dramma in arrivo

Valentina Furlanetto

"Paradise Garden" è il nuovo libro di Elena Fischer. Le donne sono protagoniste solo apparentemente: il motore della storia è la paternità

Sembrerebbe una storia tutta al femminile Paradise Garden di Elena Fischer (Gramma Feltrinelli). Non solo perché la madre della protagonista, Billie, muore alla prima riga del romanzo e si capisce subito che il libro ruoterà intorno a questa scomparsa, traumatica e imprevista, ma anche perché Billie ha 14 anni, è una bambina sulla soglia dell’età adulta e il giorno in cui sua madre muore – come in un passaggio di consegne – le viene per la prima volta il ciclo. Marika, la mamma single di Billie, è poco borghese, colorata, sboccata e anticonformista. E Billie l’adora. L’esistenza delle due donne, il loro rapporto quasi simbiotico, viene però travolto dall’arrivo dall’Ungheria di un’altra donna, la nonna, bigotta e dispotica. Billie e Marika non la sopportano. E infatti tutto precipita.

Una storia che parla di donne, madri e figlie, che ci racconta come ci si ama e come ci si odia, come si tenta di sopravvivere alla morte di una madre amatissima e come si prova a scappare da una madre oppressiva e ingombrante. Tanto più che per due terzi del romanzo di uomini se ne vedono pochi.

Tuttavia io credo che questa autrice esordiente originaria della Germania abbia scritto un libro centrato sulla paternità, non solo perchè la morte della madre costringe Billie a fare i conti con quel buco nella sua biografia, ma anche perchè il motore della storia diventa la ricerca di quest’uomo. E quando il personaggio maschile arriva ci racconta qualcosa di interessante e non banale sulla paternità. Che cos’è un padre? Quello che ci ha concepito assieme a nostra madre o uno che semplicemente dice: ci sono, non scappo, resto qui. Questo sembra dire questo puzzle, in cui tutti i pezzi sono scombinati e un po’ alla volta, attraverso le parole, si rimettono a posto.

L’altro aspetto interessante del romanzo risiede nel parlare di povertà urbana. Billie e Marika vivono in un appartamento di un caseggiato in una periferia, un palazzo squallido da dove si vede e si sente costantemente l’autostrada, dove vivono persone emarginate. La scrittrice però di ferma sulla soglia di questa possibilità. Marika e Billie, quando lo stipendio a fine mese è finito, mangiano allegramente spaghetti con il ketchup, quando sognano una vacanza al mare, che non si possono permettere, si consolano in bikini sul ballatoio, quando l’ascensore è rotto fanno diciassette piani a piedi pensando che in fondo è “come andare in palestra”, quando finisce la scuola per festeggiare non partono per le vacanze, ma si accontentano di una coppa di gelato: la Paradise Garden che dà il titolo al libro.

Anche i vicini sono strambi, ma mai sgradevoli. L’ “arabo” Ahmed “profuma di narghilè” e Luna, nata da una donna “trovata un giorno con una siringa sul braccio”, è però “capacissima di rimuovere completamente quello che la preoccupava”.  Vite ai margini, sul filo della sopravvivenza, ma dove le torte sono “di colori pastello e sempre un po’ troppo dolci”. Ad esempio Marika è costretta ad avere due lavori per mantenere la figlia, di giorno fa le pulizie in un palazzo e di sera infila “jeans attillati e stivali da cowboy bianchi” per fare la cameriera in un bar. Ma non sclera come faremmo noi. No, lei ride, salta nelle pozzanghere, dice parolacce tutta vestita di pailettes. È la madre che tutte avremmo voluto, tranne quelle che l’hanno avuta veramente e ne erano imbarazzate a morte. Perché la non convenzionalità e le difficoltà economiche dei genitori sono divertenti solo se chi li descrive non li ha mai provati, se li romanticizza, edulcorando il conflitto, ma anche perdendo l’occasione di raccontare l’imbarazzo, il dolore e la vergogna, senza i quali si rischia di fermarsi a una superficie graziosa, come il nome di una coppa gelato.

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