Il Figlio 

"Una cosa per la quale mi odierai" e tutto l'amore tra madre e figlia

Giacomo Giossi

Il romanzo contemporaneo, più che morire, sembra affrontare una malattia, riflettendo la crescente presenza della sofferenza nelle nostre vite. Il nuovo libro di Erica Mou, affronta questo tema attraverso la storia di una madre malata e della figlia che la accompagna

Forse non si dovrebbe più parlare di morte del romanzo e forse non se ne parla davvero più, si parla di malattia. Il romanzo più che morto infatti è malato, arrivando a corrispondere a una necessità che sembra sempre più rilevante tra i narratori contemporanei. Al di là della forma biografica il romanzo oggi tocca un punto di dolore e di elaborazione acutissimi. La malattia pervade ormai le nostre vite e i motivi sono molteplici e noti: dall’allungamento della vita media, fino a una medicalizzazione sempre più accurata e capace di prevenire, anche se spesso appare più che una prevenzione una vera e propria predizione. Come un anticipo di condanna. Non più la morte a rompere e a interrompere, ma una semplice diagnosi capace, nella sua drammatica precisione, di dirci quanto tempo abbiamo, quante possibilità e tutto quello che resta.
 

E quello che resta spesso è un’abitudine tutta nuova e difficile da digerire: convivere con la malattia. Una convivenza che ha spesso il sapore doloroso della morte, un avvento difficile da elaborare sia per chi lo vive su se stesso sia per chi lo vive da vicino. E attorno a una malattia che piomba improvvisa nella sua vita di adolescente e che colpisce la madre, Erica Mou elabora un romanzo tragico eppure magicamente lieve e delicato. Una cosa per la quale mi odierai (pubblicato da Fandango), seconda e convincente prova letteraria della cantautrice pugliese, prende avvio proprio dalla confessione della madre colpita da una malattia senza possibilità d’uscita. La prima cosa però è non il crollo. Perché il crollo è solo una possibilità da rimandare e un lusso che non ci si può davvero mai permettere. Quello che succede è il fiato che sale e che manca come quando ci si tuffa dall’alto, da troppo in alto: “Non è vero. Le rispondo così: Non è vero. Ma lei va dritta come un tuffatore che ha ormai lasciato il trampolino, soggetta alla gravità di un discorso che mi pare preparato da giorni”.
 

Segue poi un cambio radicale di prospettiva, si torna piccoli, si torna tra le braccia della madre anche se si è diventati adulti. Si avverte però un leggero slittamento che accompagnerà questa nuova storia sempre troppo drammaticamente breve. Non si tratta più di madre e di figlia, ma di compagne di viaggio, di amiche, di due donne legate da un’infanzia comune ora come non mai così presente e vivida.
 

Erica Mou inserisce stralci dalle pagine di un diario, il diario della malattia, che la madre tenne in quei giorni. La narrazione così si sviluppa su tre piani, le reazioni della figlia, le sue percezioni e le parole della madre, quasi delle note a margine che spiegano e appianano. A fronte della paura della figlia c’è una consapevolezza della madre, una forza che sta tutta nel materno, in quello spazio inviolabile fatto della consapevolezza della vita al di là della coscienza della vita. Uno stare nel mondo che va al di là delle cose del mondo, una cura e una presenza strettamente intrecciate al generare e al rigenerarsi.
 

Come pagine mistiche rilucono di una precisione amorevole le parole della madre: frasi brevi, appunti. E poi c’è il piano dell’oggi, del dato di fatto, della fine dentro cui Erica Mou trova risorse inedite in una presenza che ha una forza mistica senza che questa si palesi attraverso banali stratagemmi, ma nella semplicità dei giorni a venire che alternano dolore e rabbia a una felicità tanto semplice e lieve da risollevare il mondo. Una cosa per la quale mi odierai ha la forza sorprendente di un romanzo novecentesco senza esserne una sterile parodia. Erica Mou sa infatti dare una possibilità alla letteratura in un tempo in cui tutto è divenuto scrittura, ma quasi nulla sa essere letterario e lo fa facendo scintillare l’esistenza quando questa deve fare i conti con la sua fine:
 

“Un cerchio si chiude e se ne traccia un altro che abbraccia il precedente, come negli alberi, come sull’acqua. Capire di non sapere niente”.

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