Un padre e una figlia: negli anni, nel cinema, nella vita di tutti
Che bellissimo film “Il tempo che ci vuole” di Francesca Comencini: il sipario non scende sulla memoria
Sempre aperto teatro, ha detto Francesca Comencini presentando Il tempo che ci vuole, il suo ultimo film, fuori concorso a Venezia, che tra pochissimo sarà nelle sale. “Sempre aperto teatro” è un verso di Patrizia Cavalli ed è il rifiuto del sipario, è il teatro ostinato e sempre aperto delle relazioni. Qui, in un film così famigliare, così personale, così universale, è il teatro sempre aperto sulla memoria. I ricordi reali, quotidiani, ma isolati e trasfigurati dal cinema, di un rapporto fra un padre e una figlia: dall’infanzia magica alla giovinezza accidentata, inventata, complicata, tossica. Dalla maturità di un uomo innamorato del suo mestiere all’infragilimento della vecchiaia. Un uomo che urla al suo aiuto regista: “Prima la vita, poi il cinema”.
E’ un rapporto a due, privatissimo, intimo ma che sconfina sempre nel cinema (perché il cinema è il posto del cuore e degli occhi) con un uomo che conosciamo tutti, il regista Luigi Comencini. Ma è soprattutto il rapporto di una bambina, e poi di una ragazza che diventerà grande negli anni Settanta e Ottanta, con il padre, che le chiede sull’uscio di casa qual è il suo personaggio preferito di Pinocchio. “Lucignolo”, risponde la bambina, rispondiamo noi, ancora oggi terrorizzati dalle orecchie d’asino e dal buio dentro la bocca della balena, dai suoi denti aguzzi come nelle illustrazioni dei vecchi libri per l’infanzia. Questo padre, con lo sguardo di Fabrizio Gifuni, sull’uscio si illumina, le dice: certo, Lucignolo, hai ragione.
Ci sono quelli che sembrano buoni, e non sono mai completamente buoni, e ci sono quelli che sembrano cattivi, e non sono mai completamente cattivi.
Credo che su questo principio si basi non solo il cinema di Luigi Comencini, ma anche questo film, e il tentativo commovente e serio di una figlia di chiudere i conti con il padre. Ognuno vedrà qualcosa di sé, padre o figlia, bambina o ragazza che si gratta le braccia, uomo che invecchia, uomo che ricorda, rimpiange, rielabora, donna che fa i conti con quella parola terribile, fallimento, e riesce oppure non riesce a condividerla con il padre seduta sul pavimento del corridoio di casa (una casa reale, verissima, ma allo stesso tempo fatata). Padre che non vuole credere, che non può capire, che ha un’altra storia, che non si capacita eppure agisce: prima la vita, poi il cinema.
Sono soltanto loro due, sempre, il resto del mondo non esiste (se non attraverso i telegiornali) perché il cinema sa fare le magie e renderle credibili, ed è una storia d’amore, certo, è una storia speciale ma è una storia che ci riguarda tutti e che racconta una salvezza possibile. “Non ti libererai più di me”. Non voglio raccontare niente di troppo, dirò solo che Romana Maggiora Vergano, nel ruolo della figlia, figlia senza nome come senza nome è il padre, restituisce tutto lo strazio, la rabbia, le bugie, il fastidio e la potenza di crescere, di diventare grandi, di credere di non trovare mai una strada e di non poter fare mai niente, non sapere fare niente, avere paura di tutto, come della balena da piccole. Ne ho scritto qui perché qui si parla di genitori e figli e perché prima c’è la vita, poi il cinema. Ma in questo film, teatro sempre aperto sulla memoria, la memoria è di tutti, i figli sono di tutti, il rapimento Moro riguarda tutti noi, ancora e ancora.
“Cosa faremo a Parigi?”, chiede lei. “Andremo al cinema”, risponde lui. Che bel programma, che bella vita, che bellissimo film.