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Il figlio

A piedi nudi. “Quando cammini”, intima la madre alla figlia, “è al cuore che ti devi rivolgere”

Michele Neri

Dopo gli orrori del genocidio in Ruanda, rifioriscono i ricordi d'infanzia di Scholastique Mukasonga nel suo romanzo: risate e cantilene infantili, la fatica per un pezzo di pane, i sacrifici di una famiglia intera. Ma per ogni problema la madre ha una soluzione. E adesso sono i lettori a celebrarne la memoria

C’è una preghiera esaudita al cuore di un libro che restituisce dignità e splendore a una donna sterminata insieme ad altre centinaia di migliaia di tutsi nel genocidio del Ruanda, la madre dell’autrice: “Come vorrei che quel che scrivo su questa pagina fosse il sentiero in grado di ricondurmi alla casa di Stefania”. E’ quindi uno struggente e placato senso di riconoscenza, insieme alla vertigine per essere sopravvissuta – fuggendo prima in Burundi poi dal 1992 in Francia mentre trentasette membri della sua famiglia venivano uccisi – a rendere il romanzo di Scholastique Mukasonga, "La donna dai piedi nudi” (traduzione di Giuseppe G. Allegri, Utopia) un bagliore nell’oscurità del dolore, la testimonianza di come nemmeno tempo o distanza culturale possano affievolire l’amore per una madre il cui compito era proteggere i figli da persecuzioni, violenze e stupri precedenti al genocidio del 1994

 
Nella baracca di fortuna in cui gli hutu, insieme alle autorità belghe, avevano deportato parte della popolazione tutsi, primeggia e governa la madre, Stefania (nome conferitole al battesimo cristiano), che si ostina a conservare, pur in quella sistemazione così diversa dalle capanne di paglia consone alla vita di una famiglia, le tradizioni di un’esistenza libera. E’ il rimpianto per uno spazio in cui “non sono gli occhi a guidarti, ma il cuore”. Risate e cantilene infantili, i rumori dolci del pestello, lo scricchiolare dei chicchi di sorgo dentro una “tiepida penombra accogliente” sono perduti: vivere è sottostare a un assedio. Il tempo della spensieratezza pur nel durissimo lavoro, è sostituito dalla costante ideazione di piani di fuga (nascondersi dentro le tane più profonde scavate dai formichieri nella brousse) per sottrarsi alle improvvisate dei soldati. 

 
Dal suo esilio, Scholastique Mukasonga rievoca i sogni semplici accarezzati durante l’esistenza nella baracca. Il lusso di una pagnotta di pane: per averla, il padre deve camminare due giorni, per cui al cibo è riconosciuto il potere di curare le malattie dei bambini meglio di ogni altra medicina; il desiderio insopprimibile di acconciarsi per trovare marito, senza specchi, aggiustandosi i capelli tra sorelle, ritagliando nella materia crespa ciocche a forma di mezzaluna; lo stupore per il “firmamento” (termine insegnato dai missionari) osservato nel silenzio del cortile

 
La madre compie miracoli: costringendo la famiglia a rinunciare a ogni avere, a mangiare solo scarti di fagioli, riesce ad acquistare la vacca necessaria al matrimonio del figlio. Per ogni problema ha una soluzione: quando tornano dal lavoro nei campi, dopo che il sole è tramontato, Scholastique e la sorella Julienne non riescono a camminare senza cozzare contro sassi, finendo nei rovi. I loro piedi sono martoriati. E’ colpa dei piedi, insiste la madre: a differenza di quelle di altri figli, le loro dita non vedono. “Quando cammini”, intima a Scholastique, “è al cuore che ti devi rivolgere, è lui che diffonde la luce in tutto il corpo”


I memoir riusciti come questo trasmettono poesia e orrore senza spreco di emozioni; è il lettore a celebrare, nel sacrificio composto, nell’ordine inseguito in mezzo al maelstrom, la grandezza morale delle tante Stefania, Gaudenciana, Speciosa, Leoncia e Pétronille… “Le buone madri che nutrivano, proteggevano (…) le guardiane dell’esistenza, quelle che gli assassini hanno ammazzato come se volessero eradicare le fonti stesse della vita”. La figlia si rammarica per non aver potuto coprire il corpo della madre uccisa, non averla nascosta allo sguardo altrui sotto il telo solitamente annodato al collo. C’è però riuscita con le parole.
 

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