il figlio
In viaggio con mia figlia, cambia tutto tranne noi e la sveglia
E’ come a casa, ma in un’altra lingua e con souvenir in valigia. La parola “greve”
In viaggio con mia figlia in un paese lontano ho scoperto alcune cose importanti, non saprei dire se le avessi immaginate prima, perché non avrei mai immaginato nemmeno che alla mia proposta di partire insieme avrebbe riposto: boh, greve, sì. “Greve” è la parte più importante della risposta, perché significa qualcosa di misterioso ma netto, situato in un punto delicato e difficile da definire, tra il forte, lo strano, il pesante e il fico. Io ho deciso di pensare che quel “greve” andasse più verso il fico che verso il pesante, ma non ne sono sicura, perché poi per qualche settimana ha prevalso il boh, ma comunque alla fine siamo partite, con la valigia fatta sette minuti prima di andare in aeroporto. La sua valigia era leggerissima, perché se parti con tua madre puoi partire anche nuda, ci penserà lei a rivestirti, a darti il dentifricio, lo spazzolino, la crema, le mutande, il profumo, la sciarpa, la tachipirina, il portafoglio e tutto quello che hai lasciato a casa. Hai il passaporto? Hai il passaporto? Hai il passaporto? Glielo ho chiesto così tante volte che ho dimenticato il mio sul davanzale della finestra e sono tornata indietro a prenderlo, con il cuore in gola, con lei che diceva: greve, e anche in quel caso nell’uso della parola c’era una punta di divertimento, di lato positivo, o forse solo di spettacolo che io stavo dando in suo onore.
Comunque siamo partite, siamo arrivate di notte dopo un lungo volo in cui io ho guardato per la centotrentesima volta La verità è che non gli piaci abbastanza, ci siamo immerse in un altro mondo. E ho imparato che nessun mondo è mai abbastanza diverso, greve, intenso, nuovo perché una figlia che a Roma non si sveglia neanche con i cannoni cambi il suo modo di guardare la vita e diventi mattiniera per una settimana. Neanche se la colazione dell’albergo non aspetterà in eterno, neanche se arriva un santone indiano a dirle che il mattino ha l’oro in bocca, neanche se sua madre ha organizzato una cosa soltanto per lei, che interessa soltanto a lei (a me gli uccelli fanno paura, quindi mai nella vita avrei scelto di andare appositamente in una foresta piena di tutti gli uccelli del mondo a farmi guardare all’alba da migliaia di occhi immobili).
Ho imparato che, anche in un posto che stravolge tutto, nessuna abitudine del rapporto madre figlia verrà stravolta. Nessun errore, nessuna pazienza non infinita, nessun: esci dal bagno! verrà risparmiato. Apparentemente, resta tutto identico a sempre: cambia solo il fuso orario ed è rassicurante perché non si rischia di avere nostalgia di casa. Anche la confusione resta la stessa, oltre al divieto di scattare fotografie. E’ come a casa, ma in un’altra lingua e con molti souvenir sparsi in valigia. Ho imparato però che la vicinanza un certo punto, in una notte qualsiasi su un ape car qualsiasi, può esplodere inaspettata, e illuminare il cielo come i fuochi d’artificio per la festa nazionale. E ho imparato che è molto saggio fare poche foto, perché vengo male in tutte e comunque qualche prova che non abbiamo soltanto sognato resterà. E ho scoperto che quando gli sconosciuti ci chiedono di noi, chi siamo e perché siamo qui, sentirla rispondere: lei è mia madre, mi riempie di un orgoglio assoluto. Sono sua madre, metto la sveglia ma tanto lei non la sente mai, non fa colazione, ha dimenticato la mia camicia preferita in una città a settecento chilometri da dove siamo ora. Non se ne è mai accorta, fino a che le ho chiesto di ridarmela. Ha detto solo: greve.