Il Figlio
La sofferenza dell'essere umani. Mastrocola indaga il mito antico e lo reinventa
La scrittrice attribuisce al dio del fuoco Efesto una personalità profondamente umana e moderna, plasmata dal rifiuto materno: da quando ha visto la luce è un dio sconfitto, è figlio della caduta e del ripudio. Il nuovo romanzo
"Gli uomini muoiono, Efesto. Sai cosa vuol dire, ci hai mai pensato veramente?” Lo chiede Prometeo a Il dio del fuoco, come s’intitola il nuovo romanzo di Paola Mastrocola, edito da Einaudi (225 pagine, 19 euro). Sono amici Prometeo e Efesto, che dovrà fra poco eseguire tragicamente l’ordine di Zeus di punire il suo grande amico, l’unico fra l’altro, per aver rubato il fuoco agli dei e per averlo donato agli uomini. Dovrà incatenarlo a una roccia, per sempre, perché per sempre vivono gli dei. E ogni giorno un’aquila gli strapperà il fegato che rinascerà durante la notte per essere ridivorato il giorno dopo per l’eternità.
Quale destino è dunque il migliore? Vivere per sempre, condannati alla ripetizione di un incessante dolore o morire, che a volte può essere una liberazione? E’ il senso profondo della domanda di Prometeo. “Che cos’è questa sofferenza che dilania ogni essere vivente, che viva per poco o che abbia una vita senza fine? Come ci si salva dal dolore?” Ed è anche il tema di questo romanzo particolarissimo, dove risuona una lingua poetica in una trama forte e coltissima capace di usare il mito e insieme rinnovarlo. Efesto è un dio deforme e infelice, non tanto perché brutto e perché procede zoppicando e ha la gobba, ma per un dolore che lo accompagna dalla nascita: è stato rifiutato dalla madre. Era, infatti, se n’è sbarazzata appena l’ha visto così storpio, gettandolo giù dall’alto dei cieli. Efesto è dunque un dio sconfitto da quando ha visto la luce, è figlio della caduta e del ripudio. Per nove giorni e nove notti è precipitato dal firmamento fino nel più fondo dei mari. E non basta essere ammesso sull’Olimpo per curare una simile ferita, non basta essere un dio.
“Io non sono nato, sono caduto”, dice a Prometeo. Una caduta che si ripete ogni volta che, imbattendosi nella madre, lei gira il volto dall’altra parte. Non si commuove nemmeno di fronte agli splendidi gioielli che il figlio forgia per lei. Perché così sono gli dei, ingigantiscono tutto, gli amori e le vendette, scherzi e tradimenti. Mastrocola conosce e segue i miti antichi, ma prendendosi anche la libertà d’inventare. Inventare per esempio intorno a Efesto una personalità profondamente umana e moderna, plasmata dal rifiuto materno. E allora il dio del fuoco viene adottato da due ninfe, Eurinome e Teti, la futura madre di Achille. “Era un ragazzino inquieto, come se non volesse niente eppure niente gli bastasse”. Diventerà un adulto altrettanto inquieto, malinconico e, diremmo oggi, nevrotico, che solo nell’arte trova pace e riscatto. La sua è un’arte concreta, pesante, quella di fabbro e anche di orafo in cui nessuno può uguagliarlo.
Ha una forza speciale e quando forgia il famoso scudo di Achille, ha la grande ambizione di rappresentare il mondo, immancabilmente anche la guerra, “perché gli uomini credono alla guerra: credono sia il modo di conquistarsi la pace”. E scolpisce fedeltà e tradimento, perché anche questo gli è accaduto, di essere tradito platealmente dalla più bella delle dee, Afrodite, che ha fortemente voluto e gli è stata assegnata da Zeus come moglie. Ma Efesto è troppo brutto, persino ripugnante agli occhi della dea dell’amore, che gli preferisce il bellissimo, virile Ares. Possibile che non ci sia luce nel destino del dio del fuoco, possibile che non riesca a essere amato e che si ripeta all’infinito la maledizione della sua nascita? Eppure il mito parla di molti figli, mortali e immortali, attribuiti a Efesto. E allora ecco che Mastrocola inventa uno splendido personaggio femminile, che si chiama Fiamma, la fiamma che è l’arte di Efesto. Ma qui mi fermo e più non racconto, perché le fiabe hanno il diritto di concludersi felicemente, e però chi lo sa se Efesto riuscirà o no a essere felice?