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Marcelo Rubens Paiva (Ansa)
il figlio
Arresto, tortura e morte di Rubens Paiva. E i cinque figli? E la moglie?
Il padre di Marcelo R. Paiva, deputato dell'opposizione quando in Brasile ci fu il golpe militare nel 1964, ucciso dalla dittatura, e la sua famiglia segnata dal trauma. Una madre che si ammala di Alzheimer considerata quasi una liberazione dalla tortura psicologica del ricordo
La memoria non è la capacità di organizzare e classificare i ricordi in un archivio. Non esiste alcun archivio. Il passato si accumula sul passato senza pause, i ricordi si stratificano, sono la nostra geologia privata dove qualcosa emerge ricorrente e altro si nasconde. Momenti distorti o repressi oppure bloccati per istinto di sopravvivenza. A volte non ricordare più niente è una salvezza o, più semplicemente, una tregua.
Marcelo R. Paiva, scrittore, giornalista, sceneggiatore brasiliano, ha pubblicato un libro che è la storia di un padre e di una madre (suo padre e sua madre), di cinque figli che hanno ereditato una sofferenza politica. Sono ancora qui (appena uscito per La Nuova Frontiera) da cui Walter Salles ha tratto il film omonimo premiato all’ultimo festival di Venezia, racconta del Brasile tra gli anni Sessanta e Settanta. Rubens Paiva, il padre dell’autore, era un deputato dell’opposizione quando in Brasile ci fu il golpe militare nel 1964. Era un uomo di sinistra, un uomo nutrito dai propri ideali, ma non aveva mai partecipato alla lotta armata. Eppure nel 1971, mentre si trova a Rio de Janeiro con la moglie e i figli, un gruppo di militari viene a prelevarlo. Nessuno ha ricevuto i segnali di una persecuzione politica, è come se la dittatura avesse preso il potere in punta di piedi, e infatti quella dell’arresto è una scena straordinaria proprio perché ribalta ogni possibile aspettativa. Non c’è concitazione, ma la rarefazione che tormenta con gli aculei del tempo sospeso. I militari in borghese entrano, domandano chi sia Ruben Paiva e gli ordinano di seguirli per rilasciare una deposizione.
Prima che esca le figlie gli chiedono in prestito un paio di camicie per andare in spiaggia e lui gliele consegna come se fosse la cosa più normale del mondo: quella è comunque una giornata di mare, il rumore delle onde, il vociare dei ragazzi all’aria aperta. Mentre l’uomo viene portato via, gli altri militari rimangono a casa. La domestica prepara il pranzo con le mani che le tremano. Nel pomeriggio i militari giocano a carte con i figli di Ruben, intanto arrestano chiunque si presenti alla porta anche solo per una visita. Tutto fluttua come la salsedine nell’imminenza dell’orrore. Rubens Paiva verrà torturato a morte per due giorni. Sua moglie Eunice potrà dichiararsi vedova solo nel 1996, venticinque anni più tardi, grazie alla Legge degli Scomparsi. Questo libro è la condanna di un regime, ma anche la storia di una famiglia che davanti alla violenza abbraccia l’indicibile e lo incorpora nel suo dna, in un destino non eludibile.
La tortura non ha fine: un uomo viene ucciso e una famiglia viene condannata a un’eterna tortura psicologica. E allora dimenticare è forse una salvezza. Sono ancora qui è la storia di un padre e l’omaggio a una madre che si reinventa la vita daccapo. Si laurea in giurisprudenza, si adopera per l’amnistia, e non piange mai. Combatte per i diritti degli Indio, e non piange mai. Cresce da sola cinque figli, e non piange mai. Ma dopo decenni si ammala di Alzheimer. E quella malattia – quella che Iris Murdoch definiva il “blocco dello scrittore” giacché non si trovano più parole per dire la propria vita – arriva come una porta che si apre sulla possibilità di una terribile purezza, una tabula rasa che immette ossigeno. Perché la forza e l’abnegazione non sono eterne e qualsiasi individuo con la sua vita normale, con i suoi sforzi non visti dal mondo, le sue lacrime negate è anche un corpo che può ammalarsi, che può sottrarsi alla danza della memoria per trovare la pace. Mentre chi scrive, il figlio, lo consegna al presente come un eroe segnato dalle stigmate della Storia.