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Il Figlio

Jarek, nove anni, dall'Ucraina in treno verso la Polonia. Per salvarsi

Sandra Petrignani

Un romanzo forte e pieno di sentimento, senza essere sentimentale. Novita Amadei conosce bene i luoghi e i protagonisti, i caratteri e le vicissitudini che racconta. E tutto appare più vicino, e più vero del vero

Pensiamo di conoscere l’orrore della guerra per le notizie e i documentari che vediamo in Tv, per il resoconto di massacri, per i disagi che ci raccontano coraggiosi inviati e volontari di benemerite associazioni umanitarie. Il resto, come si sopravvive nella quotidianità di una guerra, possiamo solo immaginarlo e magari evitiamo volentieri di farlo, oppure lo vediamo in un film, lo leggiamo in un libro. Un libro come Da solo di Novita Amadei (Neri Pozza, 170 pagine, 18 euro), che si concentra sulla storia di un bambino ucraino di nove anni, Jarek, che la madre nella disperazione infila su un treno con l’indirizzo e il telefono di parenti emigrati in Polonia scritto addosso, perché possa raggiungerli e mettersi in salvo.

Un romanzo bellissimo, creato da chi conosce bene luoghi e protagonisti, caratteri e vicissitudini che racconta. E bellissimo non in quanto semplice trascrizione di fatti e pensieri che sono stati affidati all’autrice, ma perché la sua umanità ha saputo entrare rispetto alla realtà in risonanza echeggiante che rende tutto più vicino e più vero del vero. Leggi, e sei lì con Jarek all’oscuro della decisione materna, Jarek che si ritrova solo nel treno affollatissimo; sei con la madre Hanna che continua a mordersi un labbro fino a farlo sanguinare nella paura di mettere in atto qualcosa di irreparabile; sei con la nonna Olena che, ignara, ricama e gioca a durak; sei con la carta da gioco che si perde.

Novita Amadei, che è nata a Parma e vive in Francia, ma ora si trova con i tre figli a Washington per seguire il marito in trasferta, deve quel suo strano nome, Nòvita con l’accento sulla o, a due genitori fantasiosi che volevano per lei qualcosa di mai sentito prima e che significa idealmente Nuova Vita. Ha cominciato a impegnarsi come volontaria in Bosnia fra i 15 e i 17 anni. Poi ha lavorato nell’ambito dell’emigrazione internazionale e dell’asilo politico, entrando in contatto all’inizio del 2000 con la migrazione femminile dall’est Europa, inedita fino a quel momento. Donne che venivano a prendersi cura dei nostri vecchi lasciando a casa figli e mariti, “che si attaccavano alla bottiglia”, come fa il personaggio di Viktor in Da solo che muore per “cirrosi virata in tumore al fegato”, mentre la moglie Hanna si trova a lavorare come badante lontano dall’Ucraina.

Tutto questo mi spiega Novita al telefono quando la chiamo per chiederle: come hai fatto a scrivere un romanzo così forte, così pieno di sentimento riuscendo a non essere sentimentale? E mi racconta di quando viaggiando sui pulmini con queste migranti è stata una prima volta in Ucraina e di esserci tornata l’aprile scorso perché avendo ascoltato la storia di Hanna e di Jarek (nomi di fantasia) su cui aveva scritto il libro, voleva cercare di ritrovarli. Allora è andata a Zaporižžja e lungo la linea del Dombas a parlare con gente che li aveva conosciuti. Quindi, scoprendo che si erano ritrovati in Slovacchia, li ha raggiunti a Bratislava per conoscerli. Ma questa è cronaca e il vero incontro con loro è documentato in appendice al libro. A me non resta che citare il romanzo quando Hanna, salva per miracolo da un bombardamento, dice: “Giro intorno a casa come se ci fosse ancora una casa, un dietro e un davanti, un sopra o un sotto. Solo le cipolle e le patate, in cantina, devono essere al sicuro, le patate, le cipolle, e i topi”. Oppure quando le persone vengono divise in quelle che tolgono e in quelle che aggiungono “splendore alle cose”, o tutte le volte che Amadei fa parlare Jarek e sa non essere stucchevole come solo chi davvero conosce bene come parlano e pensano i bambini sa fare. Per esempio Jarek che aiuta la nonna a tirare via i collant e pensa “mi piace perché si allungano come cicche”. 
 

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