Parlano di famiglia ma svuotano le culle
L’errore strategico di fermare il bonus baby sitter e il congedo di paternità
In tema di annunci, e di divari tra questi e le corrispondenti realizzazioni, il governo M5s-Lega detiene probabilmente un primato, grazie soprattutto alla loquacità pubblica dei due vice premier. E poiché il paese non manca di problemi, ogni giorno fornisce almeno un’occasione per annunciare una qualche nuova “misura risolutiva” e per sbandierarla prima ancora che sia realizzata (se mai lo sarà), alla ricerca della gratitudine dei cittadini in una prossima (inevitabilmente vicina) tornata elettorale. Prendiamo il caso delle politiche di sostegno alla famiglia. Se ne è fatto un gran parlare, nei giorni del family day di Verona e delle polemiche che l’hanno inevitabilmente accompagnato, anche se con importanti distinguo sul tipo di famiglia che dovrebbe beneficiarne. Le politiche a favore dell’occupazione femminile rientrano pienamente – o dovrebbero rientrare – nel novero delle politiche per la famiglia essendo le famiglie caratterizzate da un solo percettore di reddito le più esposte al rischio di povertà. Eppure, proprio di fronte alla possibilità di fare qualcosa di concreto in tal senso, il governo si è dileguato.
L’occasione era fornita dal rifinanziamento del cosiddetto bonus baby sitter, una misura a favore delle neo-mamme lavoratrici. Molto apprezzata dalle donne nel periodo in cui è stata (sperimentalmente) in vigore, ossia tra il 2013 e il 2018, essa consentiva alle neo-madri, una volta terminato il congedo obbligatorio di maternità, di accedere, per un periodo massimo di sei mesi, a un voucher mensile dell’importo inizialmente di 300 e poi di 600 euro per servizi di asilo nido o baby sitting, come alternativa al proseguimento volontario del congedo (al 30 per cento della retribuzione mensile). La misura costituiva una concreta politica volta ad aiutare le neo-madri a realizzare un nuovo difficile equilibrio tra vita familiare e vita di lavoro, anche lasciando autonomia di scelta tra asili nido convenzionati (e accreditati) e in servizi di baby-sitting.
Ebbene la misura non è stata rifinanziata, pare “all’insaputa” degli stessi ministri. Si dirà: piccola cosa che coinvolge poche decine di migliaia di persone, e quindi relativamente pochi elettori (meglio, elettrici). Una piccola cosa sì, ma molto significativa. L’Italia è, infatti, uno dei paesi dove è più forte l’incompatibilità tra maternità e lavoro e dove la probabilità di lasciare l’impiego al primo o, più spesso, al secondo figlio è tra le più elevate (nel solo 2017, oltre 30 mila madri hanno lasciato il lavoro a causa impossibilità di coniugare lavoro e cura dei figli). Non si può però dire che le donne italiane sono meno occupate perché hanno più figli; al contrario, e questo riguarda soprattutto le giovani generazioni, hanno pochi figli e poco lavoro.
Negli altri paesi europei, e in particolare nei paesi nordici, la relazione tra maternità e occupazione è invece positiva: si lavora di più e si hanno più figli. Un riflesso sia del nostro modo di intendere il welfare, fortemente sbilanciato verso la spesa pensionistica, sia di una concezione della partecipazione della donna ancora molto lontana dal paradigma della parità. Anche la forte segmentazione che ancora sussiste nel mercato del lavoro ci mette del suo: con al centro gli uomini di età adulta come segmento “forte” e viceversa giovani, donne, per l’appunto, e lavoratori anziani lasciati ai margini del mercato o del tutto esclusi.
Per ricordare solo alcuni dati: l’Italia detiene in Europa il primato in negativo del tasso di fecondità, con un numero medio di figli di circa 1,3 figli per donna. Questo record negativo si accompagna a una delle più basse partecipazioni al mercato del lavoro e a un basso tasso di occupazione, di poco inferiore al 50 per cento di donne in età lavorativa effettivamente occupate. In Europa, i paesi con un tasso di fecondità più alto sono anche caratterizzati da un tasso di occupazione femminile più elevato: la media della fecondità è 1,6 figli per donna mentre il tasso medio di occupazione femminile è al 63 per cento, e i paesi più “virtuosi hanno rispettivamente tassi di fecondità sopra 2 figli per donna e tassi di occupazione intorno al 70 per cento (simili a quelli maschili).
Sostenere il lavoro femminile, e soprattutto trattenere al lavoro le neo-mamme, non è facile né immediato, e soprattutto non è obiettivo raggiungibile usando un solo strumento. Per questo, la legge di riforma del mercato del lavoro del governo Monti (introdotta con la firma della prima delle autrici di quest’articolo, allora ministro del Lavoro) si propose, sia pure in un momento di estrema difficoltà finanziaria – non scaricabile sul debito pubblico, come invece oggi si tende a fare – di intraprendere misure sperimentali che potessero rafforzare nei fatti la parità uomo-donna nel mondo del lavoro. Con pochissime risorse (nonostante i risparmi ottenuti con la riforma delle pensioni, peraltro destinati in maniera preponderante alla riduzione del debito) si avviarono l’ASpI (una misura contro la disoccupazione e per l’impiego, poi rafforzata e trasformata NASpI dal governo Renzi, che aveva anch’esso fatto del cambiamento un obiettivo primario), il congedo di paternità e il bonus baby sitter (a cui furono destinati 30 milioni, certo poca cosa che peraltro consentirono una sperimentazione di successo, poi replicata con maggiori risorse per altri tre anni proprio dal governo Renzi).
Tutto ciò nella consapevolezza che, complice un welfare tradizionalmente e fortemente sbilanciato nei confronti della spesa pensionistica, il costo del servizio di cura dei bambini rappresenti nel nostro paese un significativo deterrente all’occupazione delle donne o, per contro, alla maternità (il costo medio dell’asilo nido privato o pubblico si aggira intorno ai 6.000 euro l’anno, che la famiglia con un Isee medio deve interamente sobbarcarsi). A dispetto di tutti i pronunciamenti, ci dimentichiamo spesso, infatti, che le risorse dedicate all’aiuto per le famiglie in Italia si attestano al 2 per cento del pil, sotto la media Ocse e ben lontane dal 3,5 per cento della Svezia e del Regno Unito, paesi con ben più alta natalità e con ben maggiore partecipazione femminile al mercato del lavoro. La NASpI rischia oggi di sparire assorbita dal reddito di cittadinanza mentre né il congedo di paternità, né il voucher sono stati riconfermati. Un’altra dimostrazione, se ancora ve ne fosse bisogno, di un cambiamento voluto in sé piuttosto che per migliorare e della distanza tra annunci e realizzazioni.
* Università di Torino