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Foglio AI
Il grande bluff del vino analcolico: moda passeggera o rivoluzione silenziosa?
Il vino analcolico passa da moda passeggera a business miliardario, trainato dalle nuove generazioni e dall’attenzione al benessere, pur restando dibattuto sul piano dell’identità e della qualità
Negli ultimi anni, il mondo del vino ha assistito a una silenziosa rivoluzione. Lontano dai riflettori delle grandi aste di Bordeaux e delle bollicine millesimate, il segmento dei vini analcolici ha iniziato a macinare numeri importanti, trasformandosi da fenomeno di nicchia a business miliardario. Secondo Verified Market Reports, il mercato globale di queste etichette valeva 2,29 miliardi di dollari nel 2023 e si prevede che sfiorerà i 3,79 miliardi entro il 2030, con una crescita media annua dell’11,5%. E c’è chi è ancora più ottimista: altre analisi stimano un’impennata fino a 5,2 miliardi entro il 2033. L’onda lunga non accenna a fermarsi.
Dietro i numeri, però, si nasconde un fenomeno che va ben oltre il semplice trend commerciale. A spingere il consumo di vini dealcolati non è solo la solita ricerca di benessere e lifestyle salutista, ma un cambio radicale nel rapporto tra le nuove generazioni e l’alcol. Millennials e Generazione Z bevono meno, evitano gli eccessi e cercano esperienze sociali che non passano necessariamente attraverso il calice di un Chianti. Negli Stati Uniti, il segmento no-alcohol è cresciuto del 29% nel 2023 rispetto all’anno precedente, con il vino dealcolato in particolare che ha segnato un +18%. In Germania, il vino analcolico ha aumentato il suo giro d’affari del 17%, con lo spumante senza alcol che ormai domina il mercato con una quota del 60%. In Italia, le vendite di questi prodotti sono salite del 33% in volume e del 39% in valore, trainate da un pubblico giovane e urbano.
Non si tratta più solo di alternative mosce per chi non può o non vuole bere. Le grandi maison enologiche stanno investendo su questa categoria, affinando tecniche di dealcolazione che promettono di non sacrificare il gusto. Il problema, tuttavia, resta lo stesso: può un vino senza alcol essere considerato davvero vino? La questione non è solo filosofica, ma industriale. Se l’Europa ha regolamentazioni rigide sulla denominazione e sulla qualità delle produzioni vinicole, il mercato globale è ancora un far west, dove si mescolano esperimenti interessanti e operazioni puramente commerciali.
La sensazione è che, come già accaduto con le birre analcoliche, il settore troverà un suo equilibrio. I vini senza alcol non sostituiranno quelli tradizionali, ma diventeranno una categoria a sé stante, con il loro pubblico e le loro logiche. La crescita del mercato, infatti, non sta intaccando il consumo dei vini classici, ma piuttosto erodendo spazi ad altre bevande analcoliche e cocktail ready-to-drink. Chi oggi investe in questo segmento lo fa puntando su qualità e branding, consapevole che il successo dipenderà dalla capacità di convincere anche i palati più scettici. Per ora, l’unica certezza è che l’industria del vino sta cambiando, e che chi resterà ancorato alle vecchie certezze rischia di essere travolto da un mercato sempre più fluido e imprevedibile.