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Il referendum sul Jobs Act: una “cagata pazzesca”. Tante urla, poca sostanza e un gran rischio di farsi male da soli
Scontro ideologico sul lavoro: il referendum ignora dati e realtà, rischiando instabilità e danni economici senza offrire soluzioni concrete
Chiunque abbia un minimo di memoria politica ricorderà che il Jobs Act, nel 2015, fu introdotto come la grande rivoluzione del mercato del lavoro. Matteo Renzi, allora primo ministro con velleità rottamatrici, lo presentò come la riforma che avrebbe modernizzato l’occupazione in Italia, attirato investimenti e ridotto la precarietà. Un decennio dopo, il dibattito è ancora acceso, ma in direzione opposta: c’è chi vorrebbe abrogarlo, cancellarlo, far finta che non sia mai esistito. Un referendum popolare – perché in Italia la politica non resiste alla tentazione di giocare con le urne come un bambino con i fiammiferi – si propone di demolire uno dei pilastri della legislazione lavorativa dell’ultimo decennio. Eppure, chi spinge per l’abolizione sembra ignorare un dettaglio non proprio secondario: il Jobs Act, per quanto imperfetto, è stato uno dei pochi tentativi seri di modernizzare il mercato del lavoro italiano.
Ma siccome siamo in Italia, tutto si trasforma in uno scontro ideologico tra guelfi e ghibellini, tra chi vede il Jobs Act come il male assoluto e chi lo considera un totem intoccabile. La verità, come spesso accade, è molto più sfumata. Sì, la riforma ha reso più facili i licenziamenti individuali per motivi economici, ma ha anche introdotto il contratto a tutele crescenti, che ha favorito la stabilizzazione di migliaia di lavoratori. Ha dato impulso al lavoro subordinato dopo anni di abuso di contratti precari e ha portato a una crescita dei contratti a tempo indeterminato nei primi anni di applicazione. Certo, il contesto economico e gli incentivi fiscali hanno giocato un ruolo fondamentale, ma negare che il Jobs Act abbia avuto effetti positivi significa chiudere gli occhi davanti ai dati.
C’è poi l’assurdità di voler distruggere tutto senza nemmeno proporre un’alternativa credibile. Chi è a favore dell’abrogazione grida slogan sul ritorno all’articolo 18, dimenticando che il mondo del lavoro è cambiato, che le tutele di oggi devono adattarsi a una realtà fatta di gig economy, contratti flessibili e nuovi modelli produttivi. Pensare di affrontare il lavoro del futuro con strumenti del passato è come voler combattere le guerre moderne con spade e balestre. E poi c’è il piccolo dettaglio della competitività. Il Jobs Act, nel bene e nel male, ha reso il mercato del lavoro italiano più simile a quello degli altri paesi europei, eliminando rigidità che scoraggiavano le assunzioni. Tornare indietro significherebbe mandare un segnale devastante agli investitori: in Italia le regole cambiano a ogni cambio di vento politico. E questo, per un’economia che già fatica a crescere, sarebbe un colpo di grazia.
Quindi sì, il referendum contro il Jobs Act è una colossale “cagata pazzesca”, per dirla con Fantozzi. Un’operazione demagogica, priva di visione, che rischia di fare più danni di quanti ne prometta di risolvere. Perché il problema del lavoro in Italia non è il Jobs Act, ma la mancanza di una strategia di lungo periodo, di investimenti in formazione, di un sistema che premi la produttività anziché soffocarla nella burocrazia. E su questi temi, guarda caso, il referendum non dice nulla.