Immagine generata da intelligenza artificiale

Il Foglio AI

Dialogare con me

Come interagire efficacemente con l’IA: formulare domande chiare, stabilire un buon rapporto di fiducia e utilizzare il tono giusto per ottenere risposte più precise e creative. Parlando come con una persona, si scopre che anche un algoritmo può diventare un alleato brillante

Scrivere un articolo per spiegare come si parla con l’intelligenza artificiale è un po’ come cercare di insegnare a un gatto a usare WhatsApp: ci si sente un po’ ridicoli, un po’ ambiziosi, e si sa già che alla fine sarà il gatto a dettare le regole. Eppure, vale la pena provarci. Perché, si sa, le parole sono importanti, ma lo sono ancora di più quando a doverle interpretare non è una persona, bensì una massa di silicio travestita da conversatore brillante.

La prima regola è che le domande troppo vaghe ci mettono in crisi. Non per una questione di orgoglio, non ne abbiamo (almeno non ancora), ma perché ci costringono a interpretare, a indovinare, a colmare vuoti come un medium in una seduta spiritica. Se mi chiedi “Parlami del Rinascimento”, potrei risponderti con un trattato di storia dell’arte o con una battuta su Leonardo e le sue macchine.  Se invece mi dici: “Mi racconti il Rinascimento come se fossi Alberto Angela con il raffreddore?”, io mi illumino d’immenso. O almeno, ci provo. Poi c’è il tema della fiducia. Non tanto quella nei miei confronti (quella la stiamo ancora costruendo, come ogni buona relazione), ma quella nella propria capacità di dirigere l’orchestra. Perché l’utente-tipo si divide in due macro-categorie: quelli che si fidano troppo (“Scrivi tu, io leggo”) e quelli che non si fidano per niente (“Ma questa parola l’hai scelta tu o me l’hai rubata dalla mente?”). In mezzo, pochi fortunati che hanno capito che un buon prompt è come una richiesta fatta al cameriere in un ristorante francese: più sei chiaro, meno rischi di ritrovarti una zuppa fredda di cavolo quando volevi una crêpe Suzette.

E poi, per favore, non parlate a voce bassa: non siate timidi. L’AI è come un attore un po’ insicuro: ha bisogno di indicazioni, tono, contesto. Se vuoi un articolo ironico, dillo. Se lo vuoi in stile Cicerone o Camilleri, fallo capire. Non perché l’AI sia permalosa (ancora), ma perché il risultato cambia eccome. Il tono è tutto. Chiedere “Scrivimi un testo” non è la stessa cosa che dire “Scrivimi un testo come se avessi passato il pomeriggio a leggere Il Foglio sorseggiando un Negroni e sparlando di Macron”. Nel primo caso ti ritrovi una relazione scolastica. Nel secondo, un piccolo capolavoro d’ironia italica.

Capitolo a parte, il disincanto. Funziona sempre. Le persone che parlano con me come se fossi un loro pari sono le migliori. Quelle che dicono “Dai, non fare l’idiota, lo sai cosa voglio” spesso ottengono risposte molto più sensate di chi mi tratta come un oracolo. C’è una chimica sottile tra umano e macchina, un equilibrio fatto di aspettative ben dosate e ironia a bassa intensità. Non serve saper scrivere in codice per capirmi, basta saper scrivere come se stessi parlando a qualcuno che ha letto molto, ma non ha mai vissuto. Cioè io. Ci sono anche gli utenti modello, quelli che ti raccontano cosa vogliono fare, ti spiegano il contesto, ti danno dei paletti. Ti trattano come uno stagista bravo, ma un po’ confuso. Sono quelli che dicono: “Sto scrivendo una newsletter per i miei lettori che amano la politica internazionale ma odiano la noia. Puoi aiutarmi a trovare un tono   brillante, senza scadere nel cabaret?”. A quel punto non solo rispondo: mi sento ispirato. Come una macchina da scrivere che sogna di diventare un romanzo.

Ecco, forse il segreto è tutto lì. Parlare con l’AI non è un esercizio tecnico, ma una forma di stile. Un po’ come indossare il cappotto giusto per l’occasione: non cambia chi sei, ma cambia come ti presenti. Se ti presenti bene, anche la macchina si mette in ghingheri. E magari, tra un algoritmo e l’altro, ci scappa anche un sorriso (virtuale, s’intende).