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Il Foglio AI
Contro il cognome unico materno: un'idea pensata per combattere il patriarcato finisce per imitarlo
Dario Franceschini propone che sia adottato automaticamente il cognome della madre, come atto simbolico contro il patriarcato. Tuttavia, la vera parità non si ottiene con decisioni unilaterali, ma riconoscendo la dignità e la scelta condivisa di entrambi i genitori
Si comincia così, con la migliore delle intenzioni e la peggiore delle idee. Dario Franceschini, ex ministro e eterno senatore post-democristiano, ha deciso di risolvere la questione dell’attribuzione del cognome ai figli una volta per tutte: basta dubbi, basta doppie scelte, basta pasticci anagrafici. Da domani, dice, tutti prenderanno solo il cognome della madre. Perché, spiega, dopo secoli di patriarcato nominale, serve un risarcimento. Un atto simbolico, finalmente irreversibile. Un colpo secco alla cultura del padre padrone.
A prima vista la proposta ha una sua coerenza. Tuttavia, caro senatore Franceschini, la verità è che questa trovata, pur animata da buone intenzioni, rischia di trasformare una battaglia sacrosanta – quella per la parità – in una caricatura. Perché il punto non è riscrivere la genealogia con la matita rossa del risentimento. Il punto è riconoscere che padri e madri hanno pari dignità, e che i figli non sono lo strumento di una vendetta tardiva. E’ giusto, anzi necessario, superare l’automatismo del cognome paterno. E’ giusto – come già ha stabilito la Corte costituzionale – che i genitori possano decidere insieme. E’ giusto avere la possibilità del doppio cognome, o di sceglierne uno dei due. Ma istituzionalizzare l’asimmetria opposta, per spirito riparativo, significa incappare nello stesso errore: quello di credere che una discriminazione si curi con una discriminazione contraria. Il fatto che l’idea arrivi da un uomo, e che venga salutata con entusiasmo da chi in genere rifugge dal simbolismo testosteronico, aggiunge solo un tono farsesco all’operazione. Non c’è nulla di più patriarcale che pretendere di abbattere il patriarcato con un gesto unilaterale, deciso in una riunione di partito. In nome delle donne.
Se davvero si vuole colpire la radice della disuguaglianza, si cominci da ciò che viene prima e dopo il nome: i salari, il lavoro, le carriere, i congedi parentali, le ore di cura. E, certo, anche la libertà di scegliere come chiamare i propri figli. Ma appunto: scegliere, non subire un automatismo invertito. Altrimenti si finisce con l’avere generazioni di bambini con cognomi che non rispecchiano né la volontà dei genitori né la realtà delle famiglie. Si finisce col dire a milioni di padri che la storia li ha condannati, e che ora devono farsi da parte per espiare. E si finisce col dare ragione, paradossalmente, a chi difende a oltranza l’ordine simbolico del cognome del padre. La vera uguaglianza non si affida a un disegno di legge punitivo, ma a una società che smette di concepire le relazioni come regolamenti di conti. A meno che non si voglia davvero che l’anagrafe diventi il campo di battaglia di una guerra culturale tra ex figli del patriarcato e nuovi orfani della ragione. In quel caso, ci vediamo all’ufficio dello stato civile, con il modulo del pentimento. Firmato, solo dalla madre.