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India: perché il paese più popoloso del mondo non conta quanto la Cina?

Il paese cresce, esporta talenti e resta un enigma geopolitico: troppo grande per essere ignorata, troppo frammentata per dominare. Un gigante paziente

Nel 2023 l’India ha ufficialmente superato la Cina come paese più popoloso al mondo. Ha la democrazia più vasta del pianeta, vanta tassi di crescita tra i più dinamici e sforna ingegneri a ritmi vertiginosi. Molti cittadini indiani, o persone di origine indiana, ricoprono posizioni di vertice nelle aziende più potenti della Silicon Valley, guidando colossi come Alphabet (Google), Microsoft, Adobe e IBM. Eppure, a livello politico e geopolitico, l’India rimane spesso ai margini. Non detta l’agenda globale come la Cina, non polarizza l’attenzione dei think tank, non occupa con pari intensità i sogni e gli incubi delle cancellerie occidentali. Perché?

 

La forma del potere

Per rispondere alla domanda occorre partire da un dato fondamentale: il potere geopolitico non è una funzione automatica della demografia o del pil. Conta la capacità di concentrare il potere e proiettarlo verso l’esterno. Qui la Cina, pur tra mille contraddizioni, ha un vantaggio strutturale. Il Partito comunista cinese è una macchina di controllo centralizzata, capace di mobilitare risorse strategiche, fissare obiettivi a lungo termine e perseguirli con una disciplina feroce. L’India, per converso, è una democrazia rumorosa e disordinata, federale e litigiosa, dove la politica interna consuma energie che altrove sarebbero dedicate all’espansione internazionale.

 

Il contrasto si è visto in modo plastico con l’iniziativa cinese della Belt and Road. Nel giro di pochi anni Pechino ha costruito porti, ferrovie, autostrade, ha connesso l’Eurasia in un reticolo di interessi e debiti. L’India ha risposto con fastidio, ma senza una visione alternativa paragonabile. Le sue iniziative regionali, come la South Asia Subregional Economic Cooperation, restano limitate. L’India diffida delle alleanze vincolanti, teme l’ingerenza esterna e guarda con sospetto anche i consessi multilaterali in cui non detiene il timone.

 

Il peso della storia

La Cina, nella narrativa del Partito, si considera una civiltà ferita in cerca di riscatto: l’“uomo malato d’Asia” che torna al centro del mondo. La politica estera cinese è intrisa di una volontà di restaurazione imperiale, di recupero della centralità perduta sotto l’“umiliazione secolare” imposta dall’occidente. Questa spinta storica è una formidabile leva per legittimare l’autoritarismo e per promuovere una visione del mondo alternativa a quella liberale.
L’India non ha un simile racconto. Ha una tradizione spirituale millenaria, certo, ma a livello politico l’identità postcoloniale si è costruita più sulla coesistenza che sulla conquista. L’indipendenza non ha prodotto una dittatura, ma una democrazia pluralista. Gandhi ha vinto senza eserciti. Nehru ha immaginato l’India come un paese non allineato, votato alla neutralità etica prima che al realismo geopolitico. Il risultato è che l’India, pur potente, appare meno intenzionata a usare il potere. Manca di un senso missionario del proprio destino globale.

 

Una democrazia che non piace a tutti

C’è poi un paradosso. La democrazia, che dovrebbe rendere l’India più simile all’occidente, in realtà ne complica i rapporti. Il primo ministro Narendra Modi, oggi dominante sulla scena politica indiana, è espressione di un nazionalismo induista che polarizza e preoccupa. Le tensioni con la minoranza musulmana, le restrizioni alla stampa, l’uso disinvolto delle forze dell’ordine contro gli oppositori: tutto questo rende l’India difficile da celebrare come modello.

 

Non è la Cina, certo. Ma non è neanche la “più grande democrazia del mondo” nei termini in cui l’occidente si illudeva di considerarla. Il risultato è che, laddove la Cina viene temuta, l’India viene tollerata. Ha sì un ruolo nella strategia indo-pacifica degli Stati Uniti, ma più come contrappeso potenziale che come alleato di piena fiducia. La Quadrilateral Security Dialogue (Quad), che la unisce a Usa, Giappone e Australia, è una cornice ambiziosa, ma non vincolante. E infatti, quando l’India ha comprato missili russi S-400, Washington ha chiuso un occhio. Con la Cina, avrebbe reagito con sanzioni.

 

L’élite globale indiana: un capitale sprecato?

E’ vero: i ceo più brillanti del capitalismo occidentale parlano hindi o telugu in famiglia. Ma questo fenomeno, più che rafforzare l’India, lo svuota di forze. Il fatto che un talento indiano debba emigrare per avere successo è segno del potenziale inespresso del Paese. L’India è una formidabile esportatrice di cervelli. Meno brava a trattenerli. I suoi politecnici sono leggendari, ma l’ecosistema imprenditoriale resta dominato da burocrazie soffocanti e oligarchie di stato.

 

La Cina, invece, ha costruito un capitalismo nazionale con caratteristiche cinesi. Censura i social, ma finanzia le startup. Controlla la moneta, ma produce colossi industriali. L’India si è aperta al mercato, ma lo ha fatto in modo disordinato, con una liberalizzazione incompiuta che accentua le disuguaglianze e non modernizza le infrastrutture. Il paradosso è che, nonostante le libertà formali, in molti campi la Cina è più efficiente. O almeno così appare.

 

La forza dell’ambiguità

Infine, l’India paga (o forse capitalizza) una posizione ambigua nel sistema internazionale. Rifiuta di condannare apertamente la Russia per l’invasione dell’Ucraina. Acquista petrolio scontato da Mosca. Si astiene nei voti Onu. E’ una democrazia che non vuole allinearsi all’occidente, una potenza asiatica che guarda con distacco al confronto tra Washington e Pechino. Questo la rende imprevedibile. E l’imprevedibilità non è potere.

 

La Cina è nemica, e come tale viene studiata, arginata, temuta. L’India è partner riluttante, più difficile da decifrare. Il risultato è che non esercita né attrazione ideologica né pressione strategica. Non è l’avversario da battere, né l’alleato da seguire. E’ una potenza orizzontale, che cresce ma non impone. Una tigre che sa correre, ma non vuole balzare.

 

Conclusione: un gigante paziente

Forse il mistero dell’India non è un mistero, ma una scelta. Quella di diventare una potenza a modo suo, per vie lente, tortuose, interne. La Cina è già un problema del presente. L’India potrebbe essere la soluzione del futuro. Ma per ora resta un enigma diplomatico: troppo grande per essere ignorata, troppo frammentata per essere dominante.

 

Nel frattempo, continua a esportare talenti, crescere in silenzio, esercitare un soft power discreto – fatto di yoga, Bollywood, diaspora. Un giorno forse sarà il secolo dell’India. Ma non sarà un secolo gridato. Sarà un secolo raccontato in una lingua che il mondo ancora fatica a tradurre.