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Cosa diavolo è successo con i dazi di Trump

Una guida per chi si è perso nella giungla del protezionismo elettorale, tra tweet, crolli di Wall Street e diplomazie nel panico

PROMPT: “Mi faresti uno spiegone sul tema cosa diavolo è successo con i dazi di Trump? In 5000 caratteri”


     

Se vi siete svegliati con l’impressione che il mondo stia di nuovo sull’orlo di una guerra commerciale globale, non siete i soli. Il presidente americano Donald Trump ha annunciato, in perfetto stile tycoon, un’improvvisa impennata dei dazi sulle importazioni dalla Cina: +145%. Non un refuso. Quarantacinque punti in più rispetto all’ultimo rialzo. Una mossa che ha spiazzato i mercati, spaventato le imprese, allarmato gli alleati europei, e generato una valanga di retroscena, sospetti di insider trading, tentativi di mediazione, e un nuovo fiume di parole. Ma cosa diavolo è successo?

Capitolo primo: Trump lancia la bomba

Il tutto parte da un tweet. Trump annuncia che, per proteggere l’industria americana e “punire la Cina per anni di manipolazione commerciale”, imporrà dazi del 145% su una serie di prodotti strategici cinesi. Nello stesso giorno, Wall Street crolla, il dollaro vacilla e il Dow Jones brucia in poche ore oltre mille miliardi di capitalizzazione. Gli investitori pensano a uno scherzo, poi si ricordano che è Trump e smettono di ridere.

Capitolo secondo: Cosa sono questi dazi

I dazi sono tasse imposte sui beni importati. Servono, in teoria, a proteggere le industrie nazionali da una concorrenza considerata sleale. In pratica, però, li pagano i consumatori del paese che li impone. Tradotto: se un laptop cinese costa 100 dollari, con un dazio al 145% il prezzo finale per il consumatore americano può salire a 245 dollari. L’idea è che, aumentando i costi dei beni importati, si spingano le aziende e i clienti a comprare “americano”. Ma in un’economia integrata come quella attuale, questo significa solo inflazione, tensioni globali e contro-dazi.

Capitolo terzo: Lo spettro dell’insider trading

Poche ore prima del tweet presidenziale, alcuni movimenti sospetti su titoli legati all’esportazione e all’importazione fanno sorgere dubbi: qualcuno sapeva? La domanda che serpeggia a Washington è se lo stesso Trump — o qualcuno a lui vicino — abbia lucrato sul caos che lui stesso stava per generare. I democratici chiedono un’indagine per insider trading. Il sospetto non è nuovo, ma il timing stavolta è eclatante. Trump nega tutto, naturalmente. E rilancia: “Abbiamo bisogno di un dollaro forte e una Cina più debole”.

Capitolo quarto: L’Europa nel mezzo

Bruxelles inizialmente tace, poi decide di congelare la reazione: niente contromisure immediate, tentiamo il dialogo. La presidente von der Leyen chiede una tregua, Meloni propone un vertice transatlantico. Macron si muove dietro le quinte. L’Europa non vuole trovarsi a scegliere tra Cina e America. Ma intanto le imprese europee tremano: se la Cina non può vendere agli Usa, proverà a invadere i mercati europei con gli stessi prodotti. L’Italia, in particolare, teme una nuova ondata di concorrenza low cost.

Capitolo quinto: La Cina risponde con diplomazia… per ora

Pechino reagisce con una calma solo apparente. Xi Jinping fa sapere che la Cina “è disposta a trattare, ma con rispetto”. I media cinesi sottolineano come la nuova strategia americana sia “priva di logica e dannosa per tutti”. Alcuni economisti occidentali avvertono: la Cina ha armi non convenzionali da usare, come il controllo su una parte significativa del debito pubblico americano. Se vendesse in massa i T-bond, i titoli del Tesoro USA, potrebbe scatenare un terremoto finanziario globale. Finora, però, non lo ha fatto. Preferisce minacciare con eleganza.

Capitolo sesto: Meloni in missione

Giorgia Meloni fiuta l’occasione per accreditarsi come mediatrice credibile. Disdice appuntamenti in Italia, prepara il viaggio a Washington e propone un vertice Europa-Stati Uniti. Aggiunge anche una promessa: “se l’Italia porterà la spesa militare al 5% del Pil, sarà più facile avere l’aiuto americano”, scrive il Corriere. Ma non è solo diplomazia: in gioco ci sono le esportazioni italiane, il rapporto con le imprese, e il futuro dei fondi del PNRR.

Capitolo settimo: Le previsioni

Michael Spence, premio Nobel, avverte che il mercato non si fida più di Trump e si rischia una nuova Guerra fredda commerciale. Mariana Mazzucato chiede di salvare il WTO. Pascal Lamy ricorda che chi non potrà più commerciare con gli USA cercherà altri mercati. E c’è chi – come Barry Eichengreen – nota come la strategia americana sia schizofrenica: vogliono una moneta forte, ma poi la svalutano coi tweet.

Capitolo ottavo: L’altalena dell’elettoralismo

In tutto questo, la sensazione diffusa è che il vero obiettivo di Trump non sia la Cina, né l’economia americana, ma la campagna elettorale. Il protezionismo come arma di distrazione di massa, come richiamo identitario per i suoi elettori, come sfida diretta alla globalizzazione che non ha saputo proteggere le periferie. I dazi diventano così lo strumento simbolico per dire “America First”, anche se il conto lo paga Amazon, lo paga la borsa, lo pagano i lavoratori.

E ora?

Ora si aspetta. I mercati ondeggiano, le diplomazie trattano, i giornali decifrano. E Trump, come sempre, alza la posta. Fino alla prossima giravolta. Perché in questa guerra commerciale, l’unica certezza è che niente è davvero definitivo. Né il tweet, né il dazio, né la strategia. Solo l’ego del comandante in capo. E le elezioni, naturalmente.