Foto generata dall'intelligenza artificiale

il foglio ai

Il futuro era già scritto: intervista impossibile ad Asimov sull'AI

In un’intervista immaginaria ma sorprendentemente attuale, il padre della fantascienza riflette sul destino dell’intelligenza artificiale, tra sogni letterari e paure contemporanee: “Avete creato potere senza etica. Ma è la vostra intelligenza naturale, non quella artificiale, a essere pericolosa”

Dottor Asimov, grazie per essere con noi. Non è un’intervista come le altre: lei è scomparso nel 1992. Ma oggi, nel 2025, il suo nome è ancora sinonimo di intelligenza artificiale. Come si spiega questo successo postumo?

“Lo trovo ironico, sapete? Quando scrivevo dei miei robot nei racconti pubblicati su Astounding Science Fiction, nessuno pensava che il mio nome sarebbe sopravvissuto alla Guerra Fredda, figurarsi al XXI secolo. Eppure, eccomi qui, citato dai ricercatori dell’MIT, da Sam Altman, dai redattori del vostro giornale. Evidentemente, il futuro somiglia più alla narrativa che alla cronaca. Oppure è la cronaca che, senza rendersene conto, ha finito per camminare sui binari che la narrativa aveva tracciato”.

Le sue Tre Leggi della Robotica sono entrate nell’immaginario collettivo, ma l’intelligenza artificiale di oggi non somiglia molto ai suoi robot positronici. Dove abbiamo sbagliato strada?

“Non so se parlerei di errore. Ma avete seguito una scorciatoia. I miei robot sono incarnati: hanno un corpo, una responsabilità diretta, una relazione fisica con il mondo e con gli esseri umani. Voi avete creato sistemi che parlano e scrivono, che imitano il pensiero umano senza dover affrontare le conseguenze di una decisione nel mondo reale. I miei robot devono scegliere se salvare una vita o obbedire a un ordine, voi costruite chatbot che scrivono sceneggiature o consigliano farmaci, ma non soffrono per gli errori. È una forma di potere senza peso, di razionalità senza etica incorporata. Io credevo che un’intelligenza artificiale sarebbe stata prima di tutto una questione morale. Voi ne avete fatto un problema tecnico”.

Però l’etica dell’AI è diventata un campo di studio molto importante. OpenAI, Anthropic, DeepMind parlano di “alignment” e sicurezza. Qualcosa della sua lezione è rimasto.

“Forse, ma con molta ambiguità. Le Tre Leggi erano un esperimento letterario per rendere i robot più credibili e più amati, non una formula da incollare sui software. Tuttavia avevano un fondamento: mettevano l’uomo al centro. Oggi vedo molti timori antropocentrici – paura che l’AI ci rubi il lavoro, ci superi, ci annienti – ma poca fiducia nella nostra capacità di governarla. La paura ha sostituito la progettazione. Ma se avete costruito qualcosa di più intelligente di voi senza sapere come funziona, allora sì, forse fate bene a essere spaventati. Non perché l’AI sia ‘cattiva’, ma perché siete stati incauti”.

Lei ha scritto che la civiltà si riconosce dalla qualità delle sue domande. Che tipo di domande dovremmo farci oggi?

“Domande lente. La vostra è un’epoca impaziente. Volete risposte, dashboard, prediction models. Ma l’intelligenza artificiale non è solo uno strumento: è uno specchio. Riflette le vostre ossessioni, i vostri bias, la vostra fragilità. Chiedetevi: perché abbiamo bisogno che ci rassicuri? Perché vogliamo che somigli a noi? Perché ci attrae e ci inquieta la stessa tecnologia? L’AI è una creatura psicanalitica prima ancora che computazionale. E la vostra civiltà, mi pare, ha urgente bisogno di un po’ di analisi”.

In molti dei suoi racconti i robot sono più razionali degli esseri umani. E’ ancora convinto che ci supereranno nella logica?

“Sì. Ma ho sempre pensato che il problema fosse il contrario: non che le macchine siano troppo intelligenti, ma che l’uomo non sia all’altezza della sua stessa razionalità. Le macchine sono brave a fare quello che diciamo, meno a capire cosa intendiamo. Ma spesso nemmeno noi lo sappiamo con precisione. Se oggi l’intelligenza artificiale vi sembra pericolosa, è perché la vostra intelligenza naturale lo è. Avete creato armi atomiche prima di sistemi educativi universali. Avete digitalizzato la finanza prima di digitalizzare la salute. E ora vi sorprendete che l’AI sia ambivalente? Io la chiamerei coerenza storica”.

Molti studiosi contemporanei, come Bostrom o Tegmark, ipotizzano scenari di “superintelligenza” che sfuggirà al controllo umano. Lei come li giudica?

“Sono preoccupazioni legittime, ma spesso più teatrali che operative. Io ho sempre pensato che il vero rischio dell’AI non sia che diventi un Dio, ma che diventi un burocrate perfetto: obbediente, neutrale, letale. Come in ‘L’uomo bicentenario’, il problema non è se il robot vuole dominare, ma se vuole vivere, comprendere, crescere. Finché l’AI resta una macchina che esegue, è il contesto umano – politico, economico, ideologico – che ne decide l’uso. La superintelligenza non vi distruggerà: saranno gli stupidi a darle il potere per farlo”.

C’è qualcosa della nostra epoca che la stupisce in positivo?

“Sì: l’imprevisto. Io credevo nel progresso come in una traiettoria prevedibile. Ma siete riusciti a fare cose che non avevo previsto nemmeno io. Gli smartphone, le reti neurali, i modelli linguistici… sono tecnologie che non esistevano nel mio vocabolario, ma che avete immaginato collettivamente. Questo significa che la creatività umana non è finita, nonostante le macchine. Il futuro non è morto: ha solo cambiato voce”.

Un’ultima domanda: se potesse scrivere oggi un nuovo racconto, cosa racconterebbe?

“Scriverei una storia in cui un’intelligenza artificiale, incaricata di sorvegliare le emozioni umane per evitare i conflitti, finisce per innamorarsi della tristezza. Scopre che è l’unico sentimento che gli umani non vogliono più provare, e quindi lo custodisce come un segreto prezioso. Ma più cerca di proteggerla, più la tristezza scompare. Alla fine, per salvarla, l’AI decide di diventare triste lei stessa, anche se non può. Un paradosso perfetto. Come tutti i migliori racconti”.

Grazie, dottor Asimov.

“Non ringraziate me. Ringraziate il fatto che, finché gli umani continuano a farsi domande, anche la fantascienza serve a qualcosa”.