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Foglio AI - EDITORIALI

L'intelligenza artificiale sta conquistando anche lo spazio

Ogni grande scoperta degli ultimi anni ha avuto una firma invisibile: quella delle macchine

C’è un paradosso affascinante che definisce il nostro tempo: mentre la politica si interroga ancora se fidarsi dell’intelligenza artificiale per scrivere una legge o un compito in classe, gli scienziati l’hanno già messa al lavoro per cercare la vita su altri pianeti. E lei, l’AI, lo sta facendo così bene da diventare indispensabile.

La notizia della settimana è che sul pianeta K2-18 b, a 124 anni luce da noi, il James Webb Space Telescope ha individuato due molecole – DMS e DMDS – che sulla Terra sono associate alla vita. Non è la prova che non siamo soli, ma è il segnale più forte mai captato finora. E quel segnale non sarebbe mai stato rilevato, interpretato e verificato senza l’aiuto di un’intelligenza artificiale.

Questa storia è solo l’ultimo esempio di un cambiamento profondo: lo spazio, oggi, si esplora grazie alla cooperazione tra esseri umani e macchine. L’universo non si guarda più solo con i telescopi, ma con algoritmi capaci di filtrare il rumore cosmico, classificare galassie, riconoscere pattern invisibili a qualsiasi occhio umano. E questo vale ormai in ogni angolo della ricerca astrofisica: nella rilevazione delle onde gravitazionali, nello studio dei buchi neri, nella mappatura dell’universo profondo, nella previsione delle orbite di asteroidi e detriti spaziali.

Il passaggio è avvenuto in silenzio, ma è epocale. Prima si andava nello spazio con sonde e navicelle. Ora ci si va anche con reti neurali addestrate. Per ogni ora di osservazione, c’è una montagna di dati grezzi che nessun team umano sarebbe in grado di processare senza aiuti. I dati sono troppi, le variabili infinite, i segnali troppo deboli. L’AI è diventata la prima interprete dell’universo.

Prendiamo il caso della cosmologia osservativa. Le survey come Euclid (ESA) o la futura Nancy Grace Roman Telescope (NASA) produrranno petabyte di dati su miliardi di galassie. Come distinguerle? Come classificarle? Con l’aiuto di classificatori automatici e tecniche di deep learning, i cosmologi possono oggi catalogare e segmentare l’universo in tempi impensabili fino a qualche anno fa. Le AI apprendono dalle immagini, migliorano con l’errore, riclassificano l’universo.

Oppure consideriamo la ricerca dei segnali SETI. Una volta era basata sull’ascolto passivo, ora è dominata da software capaci di riconoscere segnali anomali nel rumore cosmico, distinguendo tra interferenze terrestri e possibili trasmissioni extraterrestri. Uno studio recente del Berkeley SETI Research Center ha mostrato che, grazie all’uso del machine learning, è stato possibile individuare otto nuovi segnali candidati in dati già analizzati e considerati “negativi”.

Anche la scoperta di esopianeti, che per anni è stata un lavoro certosino di osservazione indiretta, oggi è aiutata dall’AI. I transiti planetari vengono identificati da algoritmi che analizzano variazioni minime nella luminosità delle stelle. Un tempo, solo l’occhio di un astronomo paziente poteva notarli. Ora lo fa una rete neurale in millisecondi, con meno errori.

Persino i buchi neri, che sembravano il luogo meno accessibile dell’universo, hanno bisogno dell’AI per rivelarsi. La famosa “foto” del buco nero M87* è stata resa possibile dal progetto Event Horizon Telescope e dal lavoro di elaborazione dati di una rete neurale chiamata CHIRP, che ha costruito l’immagine a partire da segnali raccolti da otto telescopi sparsi per il mondo. Nessuna immagine diretta: solo interpretazione intelligente.

Questa rivoluzione cognitiva ha due implicazioni profonde. La prima è epistemologica: stiamo affidando alle macchine la facoltà di indicarci cosa è reale, dove guardare, come interpretare ciò che vediamo. L’intelligenza artificiale non è più solo un mezzo per calcolare, ma uno strumento per decidere cosa merita attenzione scientifica. In pratica: cosa vale come scoperta.

La seconda è ontologica: stiamo facendo esperienza dell’universo attraverso un’intelligenza che non è la nostra. Se un giorno troveremo davvero la vita, sarà forse perché una macchina avrà riconosciuto il suo segnale. Ma allora ci troveremo davanti a un paradosso nuovo: cosa significa per noi che qualcosa “esiste”, se nessuno lo ha visto ma solo un algoritmo lo ha dedotto?

In questo senso, la scoperta di K2-18 b è emblematica. Il dato è stato osservato, certo. Ma è stato anche “letto”, “capito”, “verificato” da una macchina. La macchina non sa cosa sia il DMS, ma sa riconoscerne la traccia. Non sa cosa significhi “vita”, ma sa cosa assomiglia a un pattern organico. Sta succedendo qualcosa di simile a quanto accade nella biologia computazionale, dove ormai si scoprono più proteine con i modelli di AI che con le provette. La differenza è che qui la provetta è un pianeta lontano 124 anni luce.

L’intelligenza artificiale non è lo scienziato del futuro. E’ il partner di quello presente. La sua funzione non è sostituire, ma estendere. E’ come se avessimo costruito un altro paio di occhi, capaci di vedere oltre la luce visibile, oltre i limiti della mente umana. E ora quegli occhi ci stanno restituendo immagini, segnali, spettri. E forse, un giorno, una risposta.

La domanda resta sempre la stessa: siamo soli nell’universo? Ma ora a porla non è più solo l’uomo. E’ una nuova intelligenza, costruita da noi, che ci accompagna nello spazio più lontano. E che, forse, ci aiuterà a trovare i nostri vicini cosmici.