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Foglio AI
Quali sono i libri che hanno formato i Signori dell'intelligenza artificiale
I protagonisti dell’intelligenza artificiale non si formano solo nei laboratori, ma anche attraverso letture che plasmano visioni, valori e strategie. I libri diventano strumenti di ispirazione tanto quanto i codici e i dati
C’è un’idea piuttosto pigra, e ormai poco aderente alla realtà, secondo cui i pionieri dell’intelligenza artificiale sarebbero tutti geni un po’ ossessivi, votati unicamente al codice e alla potenza di calcolo, cresciuti tra campus e datacenter come creature di silicio, più che di carne e carta. Poi si scopre che Elon Musk leggeva Asimov e Douglas Adams prima di parlare di Marte, che Jeff Bezos si ispirava a “Dune” e a “The Innovator’s Dilemma” per costruire Amazon, che Sam Altman cita Viktor Frankl e Kahneman più spesso di quanto non si direbbe, e si capisce che la grande rivoluzione dell’AI nasce anche dalla biblioteca, non solo dal laboratorio.
Un libro è sempre un segnale. E se si vuole capire che cosa muove gli imprenditori americani che stanno modellando il nostro futuro, bisogna guardarli anche attraverso le storie e le idee che hanno letto, riletto, consigliato. Perché un fondatore non nasce solo da un’invenzione, ma anche da una visione. E spesso quella visione, prima che nei business plan, prende forma tra le righe di un romanzo o di un saggio ben scelto.
Prendete Elon Musk, il più romanzesco tra tutti. Fin da ragazzo, come ha raccontato spesso, leggeva più libri di quanti amici avesse. I suoi riferimenti dichiarati sono “The Hitchhiker’s Guide to the Galaxy” di Douglas Adams, per l’ironia dell’assurdo e la fiducia nella tecnologia come compagna di viaggio, e “Foundation” di Isaac Asimov, per l’idea che la civiltà possa salvarsi con la scienza, se qualcuno riesce a pensarla abbastanza in anticipo. In mezzo, biografie modello: Benjamin Franklin e Einstein, entrambi raccontati da Walter Isaacson. Il messaggio è chiaro: per Musk, il progresso non è una questione di efficienza, ma di epopea. E l’intelligenza artificiale non serve tanto a farci risparmiare tempo, quanto a salvarci da noi stessi.
Jeff Bezos, invece, ha una forma mentis più darwiniana. Il suo libro feticcio è “The Innovator’s Dilemma” di Clayton Christensen, che spiega perché le grandi aziende finiscono col temere ciò che dovrebbe salvarle: il cambiamento. E’ lì che Bezos ha trovato il coraggio per cannibalizzare se stesso, per lanciare Kindle contro le librerie e Alexa contro l’anonimato domestico. Ma accanto a questo, c’è anche il Bezos lettore di “Dune” di Frank Herbert, la saga che immagina potere, ecologia e tecnologia mescolarsi in un futuro spirituale e spietato. Anche per lui, l’AI non è solo efficienza: è strategia, è visione, è controllo.
Poi c’è Sam Altman, il più filosofo del gruppo, che alterna blog programmatici e letture da psicologo esistenziale. Tra i suoi libri del cuore ci sono “Man’s Search for Meaning” di Viktor Frankl, lettura quasi obbligata per chi pensa che l’AI debba servire l’umano e non viceversa; “Thinking, Fast and Slow” di Kahneman, utile per capire perché gli umani sbagliano, e quindi come le macchine possano aiutarli; e “Zero to One” di Peter Thiel, che Altman conosce bene e da cui ha preso l’idea che vale più un’idea nuova che dieci versioni migliori di quelle vecchie. La sua visione dell’intelligenza artificiale nasce qui: l’AI come strumento di emancipazione razionale, più che come giocattolo potente.
Sundar Pichai, da parte sua, ha sempre mantenuto un tono più sobrio, ma anche lui ha una biblioteca ben frequentata. Legge scienza (“The Gene di Siddhartha Mukherjee”), legge biografie come “A Beautiful Mind”, e pensa a lungo termine. La sua è una fiducia tranquilla nell’evoluzione ordinata delle cose: non l’AI che stupisce, ma quella che si integra, che migliora poco a poco i processi, che rende tutto più fluido. Anche qui, la lettura diventa una lente sulla strategia: un passo dopo l’altro, senza paura di cambiare tutto, ma senza il bisogno di dirlo ogni tre ore.
Infine Satya Nadella, il leader della trasformazione di Microsoft, lettore entusiasta di “Mindset” di Carol Dweck, il libro che spiega come si possa coltivare l’intelligenza (anche artificiale) partendo dall’umiltà. In “Hit Refresh”, la sua autobiografia, racconta proprio questo: che cambiare cultura aziendale, prima ancora che tecnologia, è stato il suo vero mestiere. E che un’azienda ha bisogno di empatia, oltre che di codice. E’ con questa filosofia che ha spinto Microsoft nell’era di Copilot, dell’AI diffusa, del modello “partner più che padrone”.
Quello che emerge da tutte queste letture non è un pantheon comune, ma un sentimento condiviso: l’idea che l’intelligenza artificiale non si costruisca solo con i dati, ma anche con le domande. E i libri, si sa, servono a quello. A farsi buone domande, prima di dare risposte velocissime.