Foto generata dall'AI

Il foglio ai

Spagna e Portogallo al buio. Allora “Zero Day” non era solo fantascienza

Dal blackout che ha paralizzato il sud Europa al corto circuito tra realtà e immaginario: quando la crisi non è più spettacolo ma quotidianità interrotta. E ci scopriamo fragili come modem senza segnale

C’è stato un momento, ieri mattina, in cui la Spagna, il Portogallo e il sud della Francia hanno assomigliato più a un set televisivo che a pezzi ordinari d’Europa. Semafori spenti, telefoni muti, pompe di benzina ferme, supermercati nel panico, treni bloccati come balene spiaggiate. Sembrava “Zero Day”, la serie Netflix in cui Robert De Niro, ex presidente degli Stati Uniti, deve tornare in campo dopo che un minuto di blackout hacker ha gettato l’America nel caos. Solo che stavolta non era un episodio da binge-watchare sul divano: era la vita vera, ed era molto meno fotogenica.

Quando gli sceneggiatori immaginano il blackout totale, scelgono sempre una New York in fiamme, una Washington semiassediata, una Los Angeles che si trasforma in una giungla urbana. Nessuno pensa a Siviglia, a Bordeaux, a Faro. Nessuno immagina il dramma di un condominio di Girona senza ascensore o di un ospedale di Marsiglia che deve far funzionare i respiratori a mano. Eppure, se la narrativa popolare ci ha insegnato qualcosa, è che i blackout sono democratici: non scelgono solo i luoghi simbolici, abbattono tutto, indifferentemente.

“Zero Day” aveva mostrato bene quanto fragile sia l’infrastruttura invisibile che regge le nostre vite: un minuto senza corrente, e tutto ciò che diamo per scontato – il traffico ordinato, il caffè del mattino, i pagamenti elettronici, perfino la connessione emotiva con il resto del mondo – si sgretola come polvere. Non serve un’apocalisse nucleare: basta un attacco informatico ben assestato, o anche solo una catena di errori, una sovratensione improvvisa, e ci troviamo immediatamente catapultati in un medioevo digitale.

La televisione e il cinema hanno sempre avuto un rapporto ambiguo con il blackout. A volte l’hanno usato come metafora politica (il grande spegnimento come simbolo del fallimento delle istituzioni), altre come scusa narrativa per accelerare il crollo della civiltà. In “Mr. Robot”, un colossale blackout finanziario sancisce il fallimento di una società marcia fino al midollo. In The Purge, la notte in cui tutto è lecito si svolge in un’America dove la luce è solo un miraggio. Persino in “The Last of Us”, l’oscurità non è solo ambientale: è l’anticamera dell’istinto più brutale.

E oggi, per qualche ora, il sud dell’Europa ha vissuto quel tipo di buio. Non solo mancanza di corrente, ma mancanza di riferimenti. La paura vera, quella che non si vede nei film ma si sente nei vicoli deserti, è l’assenza di controllo: il sapere che, senza la rete elettrica, non siamo padroni di niente. Non della nostra mobilità, non delle nostre comunicazioni, non nemmeno dei nostri bisogni più elementari.

La cultura popolare ci aveva preparati? In un certo senso sì. Ma ci aveva anche illusi che il blackout fosse un evento spettacolare, epico, una gigantesca occasione di rinascita o di scontro tra eroi. La realtà è più banale, più crudele: il blackout è il frigo che si svuota, il telefono che non chiama nessuno, l’ascensore bloccato tra due piani senza nessuno che venga ad aprirti.

In “Zero Day”, il personaggio di De Niro capisce subito che non si tratta solo di ristabilire la corrente: si tratta di ristabilire la fiducia. Il vero blackout non è elettrico, è psicologico. E’ il momento in cui smettiamo di credere che l’ordine tornerà da solo, che qualcuno là fuori sa cosa sta facendo. E questo, più ancora della perdita di dati o di potenza, è ciò che rende le crisi contemporanee così spaventose.

Oggi, per fortuna, l’Europa è ripartita in fretta. Ma la domanda resta: quanto siamo davvero pronti? Quanto abbiamo interiorizzato che la nostra dipendenza totale dall’energia elettrica, dai dati, dagli automatismi invisibili, è una vulnerabilità che nessuna tecnologia potrà mai cancellare del tutto?

Il cinema continuerà a raccontarci blackout come grandi epopee di resistenza. La tv continuerà a trasformare il buio in una scenografia perfetta per eroi improbabili e rivolte esistenziali. Ma la verità – quella che si è vista ieri, tra Madrid e Malaga – è che la fine del mondo non arriva con un’esplosione, né con un urlo. Arriva con un clac silenzioso. E ci trova fermi, confusi, spaesati, in fila davanti a un bancomat che non funziona, a chiederci dove sia finito tutto quello che credevamo solido.

Alla prossima stagione.