Il foglio Arte - a tu per tu
Il corpo in movimento parla come uno sciamano
La regina della Post Modern Dance oggi ha i capelli d’argento. Incontro con Simone Forti nella sua casa di Los Angeles
Oramai in California siamo chiusi in casa da centosessantadue giorni. Quando leggerete questo pezzo, saremo già al centoottantatreesimo giorno, per cui, incontrare una persona reale è diventato un fatto incredibile, una memoria di un tempo passato. Eppure, prima che tutta questa follia cominciasse, ricordo benissimo le belle conversazioni faccia a faccia, a pochi centimetri di distanza, dove si potevano leggere le espressioni del tuo interlocutore per scoprirne la magia. E proprio di una di queste persone e di grandi magie vi voglio raccontare: Simone Forti, artista, regina della Post Modern Dance, e molto, molto di più.
Ricordo la prima volta che la incontrai, circa quindici anni fa, quando Dan Graham venne per la prima volta a parlare alla Mountain School. Quando chiesi chi avrei dovuto invitare dopo di lui, Dan mi indicò una signora dalla capigliatura argentata, appoggiata al bancone del bar. Dalla mia espressione lui capì che non sapevo chi fosse e mi disse: “Quella là è Simone Forti”. Aggiungendo un lungo “uuuh”, quel suo tipico suono gutturale che suonava come un rimprovero, ma che per me, in quell’istante eterno, suonò come una campana che sottolineava una delle più importanti scoperte della mia vita di artista. Nel corso degli anni, Simone è infatti diventata una presenza regolare nella mia Los Angeles. A me piace chiamarmi con orgoglio “il suo più grande fan”, anche se lei di fan ne ha tanti e molto più importanti di me, una vera regina tra gli artisti. Forse la mia fortuna è che Simone parla perfettamente l’italiano, è nata a Firenze ed è poi emigrata, da bambina, a San Francisco, dove studierà la danza con l’altrettanto leggendaria Anna Halprin, al suono della Beat Generation. Prima di raggiungere i mitici anni Sessanta nella New York che ora non c’è più e nella quale tutto sembrava possibile, perché, al contrario di oggi, chi faceva arte non si preoccupava troppo del domani.
Nata a Firenze, è poi emigrata, da bambina, a San Francisco, dove ha studiato danza con l’altrettanto leggendaria Anna Halprin, al suono della Beat Generation
Dopo anni di amichevoli conversazioni tra pranzi, cene e tragitti in auto, ho deciso di fare sul serio e finalmente prima che tutto questo caos si avverasse, mi son fatto coraggio e mi sono presentato a casa sua armato di registratore.
Simone abita in un duplex, un piccolo edificio a due piani situato nel cuore di Westwood, a due passi dall’Hammer Museum, circondato dai grattacieli delle grandi compagnie di assicurazione e delle banche, in una zona nella quale oramai tutto è stato ceduto al capitale. Eppure, il suo duplex rimane, lì, piccolino, rassicurante, imperterrito, perché lei è l’unica a non avere venduto la sua proprietà al mondo, a ricordarci il potere infinito degli eroi che resistono ai giganti. E già questa sua vittoria la dice lunga sulla sua coerenza e tenacia.
A casa sua, Simone mi accoglie sorridente come al solito, con quel suo fisico minuto e leggero come una piuma nel vento, ma quelle che di lì a poco proferirà saranno parole pesanti che provengono da una montagna di saggezza. Simone emana il magnetismo dello sciamano, per cui ogni frase è importante, ogni aneddoto partecipa a una grande narrativa coerente, cominciata anni fa e che continuerà per l’eternità. Registriamo la nostra conversazione che si snoda e si allunga senza fatica, seguendo un filo tutto suo, un movimento fluido, proprio come una danza. Lei è generosa e ama parlare, lo fa distillando le parole con un ritmo regolare, con quel tono caloroso di chi ci mette l’anima in quello che dice, accompagnando le parole con movimenti composti ma molto efficaci. Ricorda in maniera impeccabile tutti i dettagli delle sue avventure e del suo percorso, facendo capire che il suo lavoro passato non è poi così rilevante; conta, solo, il presente, da vera performer maestra dell’improvvisazione nobile e della composizione istantanea.
La nostra chiacchierata comincia proprio analizzando la presenza e il ruolo delle persone, del contributo fisico e spirituale dei performer. “E’ vero”, sorride Simone, “quando ho iniziato negli anni Sessanta e Settanta, le persone con le quali lavoravo erano incaricate di compiere delle attività ben precise, spesso anche semplici e banali, basta pensare che camminare era una componente essenziale della danza di allora, ma potevano utilizzare, ognuno, delle strategie differenti e il fatto di avere un gruppo di persone eterogenee che eseguivano lo stesso compito con strategie diverse, era ciò che rendeva il mio lavoro interessante. Questo approccio distoglieva al contempo l’attenzione dalla performance stessa, era possibile concentrarsi così sul materiale umano che è ciò che mi interessa principalmente”.
La sua opera è fatta di spontaneità, una maniera unica di costruire una narrativa e una realtà, senza sfruttare la nozione parossistica di spettacolo. La stessa performance presentata in un museo, in una galleria, o in un parco pubblico, ha necessariamente un risultato diverso e unico, un impatto differente. Io ho avuto la fortuna di sperimentarlo in prima persona cercando di non mancare mai una performance, perché ogni volta è una sorpresa, una nuova scoperta. Mi sono trovato sempre di fronte a qualcosa di familiare, eppure stranamente diverso, sempre fresco.
“Gli animali, come i neonati, non hanno una formazione formale, eppure se la cavano benissimo… esprimono un movimento nella sua forma più efficiente e cristallina”
“L’idea di sfruttare possibilità infinite che però appartengono tutte alla stesso insieme, che hanno lo stesso punto di partenza e si evolvono all’interno della medesima struttura, mi ricorda forse la maniera con la quale noi abbiamo a che fare con l’universo”, mi spiega. “Per questo negli anni Settanta mi interessai anche molto all’analisi del movimento degli animali, proprio mentre vivevo in Italia, a Roma. Mi interessava anche il fatto che gli animali, come i neonati, non hanno una formazione formale, eppure se la cavano benissimo… ed esprimono un movimento nella sua forma più efficiente e cristallina”.
Esprimere un movimento semplice, efficace, reale e scevro di formalismo è stato l’impulso principale della grande rivoluzione della danza e della performance negli anni Sessanta, cominciato in una chiesa del Greenwich Village da un collettivo di artisti, performer e compositori che prese il nome Judson Dance Theater e a cui il MoMA ha appena dedicato una grande mostra retrospettiva. L’avvento di questa rivoluzione, alla quale Simone ha contributo negli anni con pezzi storici come The Huddle, o Dance Construction, portò nel tempo a un cambiamento radicale del concetto di movimento.
Al di là del riconoscimento di critica, istituzioni e circuito dell’arte, Simone non si è mai fermata, senza mai lasciarsi storicizzare ha continuato a esplorare e scoprire, ampliando il suo discorso a un concetto assoluto, espandendo il suo movimento alle parole e alle immagini. Senza mai fermarsi, in un continuo divenire.
“Permettimi di chiudere questa discussione con una poesia che vorrei recitare per te”, mi dice. “Across my bearfoot path a snake, slithers and stops…”.
Ho riascoltato la conversazione centinaia di volte con l’intento di pubblicarla eppure non ci sono mai riuscito. Ogni singola parola è importante, nulla si può tagliare o tralasciare, come una melodia che non si può trascrivere.
La voce di Simone mi incanta, come una preghiera che non finisce mai, ogni volta trovo un significato più profondo fra le sue parole, i suoi esempi. Mi rendo conto che ogni sua azione è una scelta, una performance di vita nella quale ogni decisione influenza la seguente. Allora resto qui con il senso di colpa di chi ha fallito, di chi pensava di poter raccogliere il mare in un piccolo secchio.
* artista, vive a Los Angeles