Le ultime elezioni presidenziali degli Stati Uniti sono state le più seguite e partecipate della storia. La crescente onda emotiva che le ha accompagnate è stata tale da prevalere sulle idee, le inclinazioni e gli argomenti che definiscono le scelte personali. Poca ideologia ma tanti scontri, tanto da ridurre la questione a una saga disneyana di lotta del bene contro il male, un conflitto che però non premia il furbo o il più forte ma i più numerosi. Sono i rischi delle regole su cui si fonda la democrazia che divengono insopportabili per quelli che soffrono di complesso di superiorità, di chi vorrebbe una società più “inclusiva” ma unicamente nei confronti di coloro che la pensano allo stesso modo. Se quindi sei del Nord Dakota, isolato nella tua frustrazione, appartenente alla maggioranza degli americani senza “college degree” (2/3 della popolazione) e che per necessità di appartenenza abbracci l’insieme della retorica dei Padri pellegrini, allora meriti i mali peggiori, alla faccia dell’inclusività. Mai dichiarazione di un politico fu così sincera e rivelatrice di un sentimento troppo diffuso per non essere espresso, come il “basket of deplorables” di Hilary Clinton nel 2016. I deplorevoli erano quella metà di cittadini che avrebbero votato per Donald Trump, che non la pensavano in linea con i neo-liberal quindi meritevoli di biasimo. Non solo un pensiero ma una convinzione di natura antropologica più che ideologica, tale da sfuggire al controllo delle chirurgiche strategie di campagna elettorale che definiscono ogni parola, tono e pausa del candidato.
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