Il Foglio Arte
Le nostre mani al servizio della materia, in oblio di sé
Tutte le separazioni che Toti Scialoja ha insegnato a superare a una generazione di artisti e sperimentatori. Raccontate da Giorgio Griffa e Nunzio
Nunzio: Giorgio, mi farebbe piacere sapere da te quale ricordo hai di Toti Scialoja. Insieme a molti altri, sono stato suo allievo all’Accademia. Toti era una figura straordinaria, appassionata; a noi giovani trasmetteva idee nuove, ricche di stimoli avvincenti, aveva rapporti stretti con l’America, e poi conosceva molti artisti che noi stimavamo e ritenevamo importanti come modello per nuove sperimentazioni: ad esempio Pino Pascali, Jannis Kounellis, che tra l’altro erano stati suoi allievi. A quel tempo Toti insegnava scenografia; tra tutti noi iscritti al suo corso nessuno ha seguito quella strada. Siamo diventati pittori, scrittori, figure che, grazie comunque al suo insegnamento e alla sua guida, davano e avrebbero continuato a dare molto rilievo alla centralità dell’opera.
Giorgio Griffa: Io sono arrivato in ritardo su tutto perché facevo un altro mestiere, ero un pittore dilettante. Penso che la mia frequentazione, breve ma per me tardiva, con Scialoja è stata quella dei vostri tempi, solo che voi avevate vent’anni e io ne avevo quaranta. Per me è stato molto importante questo breve intenso rapporto con lui: non solo perché aveva questa capacità di vedere al di fuori, aveva questa mente aperta che derivava da questo fatto di scrivere, di avere tanti altri interessi. Credo che lui abbia avuto un’importanza estrema perché ha vissuto in quel periodo in cui, a seguito di quell’articolo di Togliatti del 1948, c’era stata una tremenda polemica tra astratto e figurativo che io sono convito abbia fatto male a tutti e due. Ricordo la sofferenza di Turcato quando si tornava sull’argomento, se l’è portata dietro tutta la vita. Scialoja per queste sue aperture, per questi suoi rapporti con gli artisti americani è colui che ci ha introdotto a cosa stava accadendo nell’umanità in generale. La pittura non è qualcosa di staccato da quello che sta accadendo, la pittura la fanno alcuni uomini in tempi e luoghi molto precisi e per farla usano la cultura di quel tempo e di quel luogo. Poi le arti hanno la capacità di sopravvivere, ma il punto è che io vorrei pensare in qualche modo all’importanza di Scialoja. Vorrei sottolineare alcuni aspetti simbolici del lavoro di Pollock: uno è questo passaggio direi definitivo che avviene all’inizio della globalizzazione e che corrisponde alla condizione in cui si ritenevano prevalenti su tutte le altre arti le arti dell’occidente. C’è stato il fatto di dimenticare tutta la memoria di tipo accademico in favore del colore che cola, a questo segno che vuole avvicinare tutti gli aspetti della cultura, quelle più sofisticate con quelle che all’epoca si definivano primitive, e ci stiamo rendendo conto che non erano tanto primitive forse lo erano dal punto di vista tecnico ma non lo erano da quello del pensiero. L’altro aspetto che è quello che a me più affascina del lavoro di Pollock, e che poi ritrovo nel lavoro di Giuseppe Penone, nel tuo lavoro e penso anche nel mio, è questo passaggio della mano dell’artista, dalla mano che dominava la materia alla mano che si mette al servizio della materia. Noi negli anni successivi abbiamo scoperto dalla scienza che nel moto delle particelle, di cui allora non si sapeva nulla, c’è vita, che l’intelligenza è dappertutto. Il fotone che colpisce una parete viene mangiato da un elettrone e l’elettrone a sua volta produce un altro fotone, si tratta di un qualcosa della vita che nasce. Questo fatto della vita, dell’intelligenza che è dappertutto, comporta un passaggio da un sistema di dominazione della materia a un sistema di partecipazione. Poi è chiaro che le arti continuano ad avere la loro funzione, cioè che il mondo animato e il mondo inanimato continuano a convivere comunque. La funzione dell’artista di dare un senso vitale, di portare un oggetto del mondo animato nel mondo inanimato e far si che parli e si metta in relazione con le persone continua ad essere un’operazione che continua ad avere la sua funzione essenziale.
Nunzio: Trovo che alcuni artisti a cui in qualche modo la mia generazione si è riferita avevano un rapporto con la materia non-materia. Cerco di esprimermi meglio: l’uomo è materia, è fatto di materia. Quando un artista, un pittore, uno scrittore, un designer si immergono nel loro soggetto, nella sostanza, nel tema, si immedesimano in quella cosa, cioè coincidono con quel preciso, particolare fenomeno; diventano essi stessi materia. Non c’è scollamento, né quella freddezza, quell’assideramento oggi dilagante che tuttavia non escludo possa un giorno nuovamente cambiare. L’artista che opera direttamente con la materia ha con essa un rapporto immediato, esplicito: l’accompagna, l’asseconda, la muove, la può variare, mutare, provocare, suscitare e, allo stesso tempo, ricevere e da questa scovare suggestioni nuove, nuove folgorazioni. Tu racconti che il rapporto che Toti ha avuto con l’Action painting è stato importante per tutta una generazione che ha proseguito le proprie ricerche con aspetti diversi, su binari anche molto lontani tra loro. Credo che la mia generazione abbia assunto, abbia assorbito completamente questo legame con la materia, come a dire che l’artista immerso e accorpato attraverso la sua opera nella materia si trasforma in quella sostanza, in quel colore. Quando riesci a trasmettere quel qualcosa, un qualcosa insito alla ragione stessa, allora sei di fronte a una forma di simbiosi interessante. Penso sempre a un fatto curioso. Quando noi ammiriamo le forme straordinarie di Brancusi perché sfiorano l’essenziale, la purezza assoluta, il sublime, le guardiamo cercando di capire cos’è rimasto di quell’affinare, di quel polire, di quella tensione epurata di sentimento e per quale motivo ci conquistano, o perché Picasso era affascinato dalla scultura africana, la risposta potrebbe essere che la materia è stata caricata e potenziata di qualcos’altro, di una forza misteriosa. Rimaniamo sedotti dalla metamorfosi che quell’artista ha attuato divenendo esso stesso materia della propria opera, concretezza e fisicità di una propria idea.
Giorgio: Questo è un passaggio importantissimo, è un passaggio di lettura di noi stessi su cui sono pienamente d’accordo. Da molto tempo mi porto dietro quest’idea dell’oblio di me stesso. Quando lavori sei un oblio di te stesso, entri e sei quella materia. Nel momento in cui il pennello si appoggia e diventa segno e lascia la sua traccia sulla tela, io mi sento quel segno: è realtà e il segno nello stesso tempo. La materia è il passaggio dallo stato indeterminato dell’energia allo stato determinato di quell’energia che si fissa nella materia. Quindi questo senso della materia, questo senso della realtà è fondamentale. A mio parere quella polemica era legata a un tempo passato, finito, era una sopravvivenza di un materialismo oramai spossato. Negli stessi anni in cui Togliatti scriveva il suo articolo di condanna sono iniziati i libri di divulgazione del pensiero dell’oriente e io che avevo quindici anni ho scoperto lo zen. Fra i pensieri fondanti dell’oriente c’è proprio questo pensiero dei pittori che quando lavorano devono avere l’oblio di sé stessi. Là c’era una funzione metafisica e non ha nulla a che vedere con il nostro pensiero occidentale. Si tratta di una strada che attraverso le contaminazioni con le altre culture noi troviamo e quando tu mi dici che siamo noi quella stessa materia è una scoperta stupenda, ma è una scoperta che facciamo anche leggendo la pittura degli antichi, è un cambio di visione che per noi è fondamentale.
Nunzio: Diciamo che realizzare, lavorare con e attraverso la pittura, la scultura, l’arte in generale, significa percorrere una strada che al novanta per cento si potrà mostrare rovinosa, fallimentare. Per chi decide di intraprendere questa strada, di mettersi in discussione, il fallimento, al contrario, può rivelare un aspetto di grande vitalità che rende sostenibile l’esistere, che consente di osservare il mondo, di vederne l’altra parte, di trovare quella parte nascosta, la parte mancante dell’individuo, l’altro da sé, il suo deuteragonista. Si tratta di qualcosa che metti in discussione prima di tutto per cercare di far emergere una dualità, di individuare quell’altro che ti permetterà, se tutto funziona, di identificare e scoprire insieme qualcosa al di là del tangibile.
Giorgio: Il rapporto con la parte nascosta del mondo e di noi stessi. Nella parte che è nascosta non riusciamo a trovare un’identità. L’uomo la necessità di identità se la porta dietro da quando ha iniziato a guardare il mondo. La necessità di dare identità alle cose è un altro passaggio molto importante, là dove non possiamo dare identità perché nascosta, noi diamo identità all’opera per il fatto che essa è destinata a parlare con gli altri. L’altro non importa chi è perché rimane indeterminato, il noto e l’ignoto convivono. È l’unità del pensiero dell’oriente, del pensiero zen, l’unità fra lo Ying e lo Yang, il contrario fra il bianco e il nero, questo mettere insieme i contrari. La pittura e l’arte figurativa hanno questa capacità di portarsi al di là.
Nunzio: Io sono vissuto in un’epoca, come ben sai, dove musica, teatro, arti visive confluivano in un’unica realtà. Non c’era una vera separazione, si cercava un’arte totale, una sinestesia tra tutte le diverse forme di cultura. La poesia, l’arte, il cinema avevano uno stesso obiettivo negli anni dello sperimentalismo. Arte e vita per qualche aspetto coincidevano, nessuna discontinuità, nessuno iato. Se devo fare una riflessione, penso che questo è sempre stato e sempre sarà, che l’artista è sempre in lotta, ha sempre la testa rivolta a un altrove, esplora e scruta quello sguardo, quel territorio che gli permettono di visualizzare una prospettiva che si disegna e si forma nella mente, un’intuizione che lo ossessiona e lo possiede.
Giorgio: Mentre tu parli io penso che sono stato fortunato ad essere un po’ tardivo perché quando avevo vent’anni il mondo era ancora molto rigido. Io sono cresciuto in anni in cui c’era il teatro e dentro al teatro c’era il teatro lirico, il dramma, il varieté. Erano tutte discipline separate, il pittore aveva questa funzione precisa di rappresentare il mondo, non c’era elasticità e questa apertura tu l’hai vista in un tempo brevissimo. Quel passaggio che per voi è stato l’inizio, per noi è stato il passaggio da una condizione a un’altra. Può darsi che io avessi avuto degli insegnanti molto tradizionali, che io non fossi capace di capire i cambiamenti che stavano avvenendo, ma effettivamente per me è stato cosi: sono passato da una condizione rigida a una condizione dinamica.
Nunzio: Mi ricordo di performance, di pièce, di mostre dove la sensazione era quella di assistere a qualcosa di irripetibile, a un accadere dove il pubblico era parte integrante di un avvenimento unico, eccezionale e in quel hic et nunc si fondevano tutte le individualità. Questa sensazione coincideva con la volontà dell’artista stesso e per noi partecipare a tali manifestazioni è stato un insegnamento straordinario, un pungolo, un incitamento determinante.
Nunzio: C’è stata qualche tempo fa una mostra interessantissima alla Fondazione Beyeler con tutti gli artisti che io ho profondamente amato e che hanno fatto parte della storia più importante del Novecento. Le loro opere erano state messe in rapporto con sculture appartenenti ad altre civiltà, forgiate da mano anonime ma di grandissima originalità, spesso con una funzione rituale. Ti garantisco che l’intenzione era la stessa, la forza era analoga e contemporaneamente straordinaria; restituivano pienezza e intensità a chi le osservava. Sono assolutamente convinto che l’artista è colui che modifica la realtà diventando in questo modo una figura fondamentale per tutti. Non come deus ex machina, ma per come riesce a immergersi, ad affondare nel profondo e a trovare quelle chiavi, quegli strumenti interpretativi che possano essere utili non soltanto a illuminare lui, ma come ti dicevo prima, a scoprire, a disvelare l’altra metà.
Giorgio: Questo è un aspetto di fiducia e che ci consente di lavorare e che mi sembra sia la cosa più importante da considerare. Mi sembra un buon argomento con cui chiudere la nostra chiacchierata.
(A Torino, il 2 aprile 2021)