Il Foglio arte
Perché è finita “l'impresa” di Gavin Brown? Ma poi, è finita davvero?
Il gallerista più vivace degli ultimi decenni ha chiuso, e ci spiega. In bicicletta
È una giornata fredda a New York. Tira un vento robusto da nord che fiero s’incanala in quella scacchiera urbana che è Manhattan. Devi solo sperare che sia uno di quei giorni con il vento a favore sennò tutto sarà più faticoso. Si respira un’aria salubre, le nuvole spazzate via svelano un cielo blu ottimista che rende tutto possibile, in una città dove tutto è effettivamente possibile, tutti i giorni e in ogni momento. Forse è per questo motivo che ogni fatto ponderabile viene monetizzato, a cominciare dal tempo ovviamente. Il tempo è denaro, potrebbe essere il sottotitolo della città, un’espressione dal sapore paternalistico che qui è dogma. Gli incontri non iniziano se prima non si sa quando finiranno e se si arriva con 10 minuti di ritardo (dalle mie parti magnifica opportunità per farsi i fatti propri), la gente è sinceramente preoccupata che ti sia successo qualcosa di grave. Ricordo un viaggio fatto per una studio visit. Con l’idea dell’italiano scombinato, busso alla porta con due minuti di anticipo, dopo averne attesi 15 per strada (arrivare prima è semplice, il talento sta nell’arrivare in orario). Preoccupata da questo anticipo l’artista sospetta che vada di fretta: “Benvenuto, quanto tempo abbiamo?”. “Mah, sono venuto dall’Europa per incontrarti, prendiamoci il tempo necessario”.
Presentarsi con incalcolabili minuti in dote la lusinga, ma l’assenza di una qualsivoglia scala operativa la destabilizza profondamente, non avendo lo schema d’intensità 1, 2 o 3 da poter applicare. Sarà quindi lei a decidere la durata dell’incontro, durata che con qualche mossa alla tenente Colombo verrà prontamente sovvertita. Di questi tempi non si viaggia e per incontrare Gavin Brown preferiamo farlo al telefono, al posto delle (una volta futuribili) piattaforme che rendono tutto forzatamente intimo e soprattutto faticoso perché ti condannano all’immobilità, fermo, seduto davanti allo schermo. Gavin Brown ha da poco chiuso la sua galleria, diventando partner di Barbara Gladstone e portandosi dietro un numero importante di artisti. Vorremmo capire le ragioni di questa scelta, e soprattutto se è stata veramente una scelta.
L’appuntamento è per le 8 locali, iniziano i convenevoli e sento il vento sibilare nel microfono. Passeggiata mattutina. In giro con i cani? Macché, G.B. è già in bicicletta, direzione downtown. La nostra sarà una conversazione peripatetica, verrà quindi misurata dallo spazio percorso, partenza 127 strada, Harlem, nei pressi del mitico Apollo Theatre. Andare in bicicletta oggi a New York non è più un azzardo, oppure attività riservata a spacciatori o indigenti, e poi oggi il vento è a favore. G.B. è uno dei galleristi che può rappresentare al meglio il nuovo ordine dell’arte contemporanea. Inglese, passato dalla scuderia della Galleria Doffey (mentore di una decina di galleristi ora ai vertici del mercato, figura mitica, oggi pensionato in anticipo causa fatti MeToo), “esperienza che mi ha insegnato cosa fosse un artista e come sostenerlo, mentre dalla 303 Gallery ho imparato cose fosse una galleria. Quelli di Doffey sono metodi oggi forse non più attuali”, che però G.B. ha saputo applicare al meglio, scegliendo sempre l’artista rispetto ai clienti o al favore del pubblico, sviluppando in questo modo un’affiliazione unica gallerista-artista. “Sì, ma questo rapporto speciale con gli artisti maschera una mia spiccata disabilità in fatto di business. Non sono capace di percepire il business in modo chiaro, l’arte sì invece, quella la vedo benissimo”.
Gli inizi sono da artista, formazione che determinerà il suo modo non convenzionale di intendersi gallerista. Ventenne, si trasferisce a New York con determinazione al posto dei soldi e la giusta sfrontatezza di chi ritiene sia arrivato il momento per mescolare le carte del gioco. Poi con un nome così il successo lo devi solo gestire, o vai a Hollywood a fare l’attore o a New York e apri una galleria. Sceglie quindi la seconda, ma (ecco la prima eccezione) non apre una galleria bensì la “Gavin Brown’s Enterprise”, iniziando con uno sparuto gruppo di artisti suoi coetanei, meno interessati all’oggetto quanto all’esperienza insita nelle dinamiche sociali, mettendo al centro ciò che era solito essere la circostanza. Gli artisti sono thai, polacchi, svizzeri, ma anche statunitensi e c’è un altro giovane critico dalla naturale indole filosofeggiante (forse perché francese) di nome Nicolas Bourriaud che teorizza il concetto di estetica relazionale (siamo a metà anni ’90 dove si inizia a fruire di scambi a distanza mediante cellulari o email, dispositivi che seguono il soggetto e non viceversa, cosa ne sarà dei rapporti umani, si comincia a chiedersi?).
Ecco la prima scintilla del successo. Malgrado l’apparenza festaiola e rilassata ciò che la GBE presenta si iscrive da subito in un filone teorico le cui azioni saranno puntualmente percepite come “history in the making”. Un predestinato potremmo dire che fa di quell’intensità che New York distilla a meraviglia, la sua cifra distintiva. Quindi la galleria offre come esperienza artistica il consumo sul posto di noodle, pai thai e di tanta convivialità, spostando l’attenzione dal feticcio alla persona. Siamo parecchio in anticipo sull’enfasi d’impegno sociale che viene oggi richiesto agli operatori culturali. “Le gallerie erano e fanno parte di una classe dell’ospitalità, una classe dirigente, so di usare un vecchio termine. I caratteri del museo hanno effetto nella vita quotidiana delle persone, non fanno parte del ruolo dell’arte in quanto tale. Dal tardo capitalismo fine ’900, l’oggetto d’arte ha cambiato collocazione, si inserisce in un sistema di relazioni”.
La galleria non propone solo happening mangerecci ma anche dipinti, sculture perché il gesto della GBE non vuole essere iconoclasta ma una proposta per reindirizzare l’attenzione, usando come propulsore l’energia sociale. Lo spazio vuole essere un acceleratore di particelle e visto che il giorno da solo non basta, G.B. apre la versione notturna della galleria, il club Passerby, per accompagnare alle sue offerte artistiche un lifestyle che definirà il meglio e il peggio della tribù dell’arte contemporanea: tanta ostentata simpatia, meno camicie e più t-shirt, meno cuoio sotto i piedi e più sneaker, etc. etc. Con G.B. liberarsi dal dress code non è più solo prerogativa concessa agli artisti, si celebra il casual cool. E poi sono gli anni di Purple Magazine, l’organo ufficioso di un nuovo stile realista, stile che ha poi trovato la sua divulgazione globale con i social media. Tutto coincide e non a caso.
Nel corso degli anni G.B. ha promosso (per poi perderli a vantaggio di gallerie più grandi) artisti divenuti delle star del mercato quali Urs Fischer (a cui permise nel 2007 di trasformare la sua galleria in un cratere), Avery Singer, i pittori Chris Ofili, Elizabeth Peyton, Peter Doig, Joe Bradley…
Come si è vissuto a New York in questo anno pandemico, dove tutte le forme organizzative sociali sembravano sovvertite? “I giorni passavano senza motivo, seguiti da momenti di pausa, poi in modo nevrotico si cercava di riprendere i ritmi precedenti. Qualcuno mi ha detto, ieri è andato e non si torna più indietro”. Un necessario, gusto ottimistico-fatalista che tanto ricorda il nostro Chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato e scurdiammoce ‘o passato. New York è sempre più prossima di quanto non lo immaginiamo.
Ma le cose stanno cambiando e la crisi pandemica ha solo eliminato i convenevoli di questo cambiamento. “Se guardiamo alle decadi 1955-’65, 1965-’75, 1975-’85 notiamo in ognuna enormi mutazioni. Dall’85 a oggi quanto è cambiato? La proliferazione di fiere d’arte non è un fattore in sé, ma un sintomo. Puoi vedere che l’effetto di questa stasi è stato quello di influenzare la storia e allontanare l’oggetto dal pubblico, dalla sua gente. L’arte di solito aveva una relazione diretta con gli occhi e con il cuore delle persone, ora non so più come sia questa relazione. I musei si sono trovati soffocati da oggetti il cui significato è cambiato. Piuttosto che essere custodi dell’eredità del popolo, i musei sono custodi dei beni. La gente sembra alienata dall’arte e i musei come rispondono rispetto a questa condizione?”.
La Gavin Brown’s Enterprise ha recentemente chiuso dopo 26 anni, lasciando dietro di sé non solo sorpresa ma anche preoccupazione per un “effetto domino”, data la posizione della galleria nel panorama artistico internazionale. Dall’85 nulla sembra cambiato ma oggi ci troviamo in una sovversione dei paradigmi, stiamo assistendo a un cambio radicale? “Probabilmente no perché il tasso di interesse è dello 0%. il denaro è gratuito, non costa niente. Questo è il modo in cui la gente pensa. Ci sarà un “crashing stop”? Niente si ferma sistemicamente, nessuno si offre volontario, questo può solo accadere con una pandemia biologica mondiale. La nostra intera rete di relazioni vive su di un equilibrio e si mantiene tale. Non abbiamo comunque ancora toccato il fondo”. Insistiamo, la chiusura repentina della tua galleria è anch’essa un sintomo? Stiamo entrando in un nuovo sistema o c’era di fondo una tua consapevolezza (o fascino?) legata al rischio? Quando 6 anni fa hai aperto uno spazio a Roma (la chiesa sconsacrata di Sant’Andrea de Scaphis), dicesti Sono molto felice di essere a Roma, è un sogno, e mi piace anche essere a New York nel bel mezzo della tempesta, potrei svegliarmi un giorno e vedere che la tempesta ha spazzato via tutto.
È successo così, che da un giorno all’altro tutto è svanito? La replica è un monito nei confronti delle diffuse tendenze vittimistiche: “Sì, tutto è stato spazzato via di colpo. Lo sapevo perché avevo un senso della mia situazione estrema e nella quale mi sono messo da solo. È stata una tempesta personale, ho sentito che stava arrivando. Non amo lo stress e la pressione, ma mi comporto comunque come se la cercassi, la sopravvivenza è una forma di primo atto creativo. Lavoro meglio quando non sono a mio agio, mio malgrado. Quindi la chiusura della mia galleria non rappresenta nessun sintomo di cambiamento generale, era un fatto personale. Jerry Saltz dice che la notizia della mia chiusura è terribile per tutte le medie gallerie. Penso invece che queste sappiano badare a sé stesse, sopravvivranno, e anche bene. Quando ho aperto Harlem, in poco tempo molti mondi diversi sono cambiati enormemente (il mondo in generale, quello dell’arte, quello finanziario, il mio mondo personale). Non provo rammarico ma era una specie di suicidio. La situazione era arida e ho trovato il mio posto uptown come un modo per creare il mio mondo, che è magico ma non funziona finanziariamente. Ora voglio solo annoiarmi un pochino”.
Siamo arrivati a Soho, davanti allo studio di Alex Katz (pittore, 93 anni è l’artista più “prezioso” della galleria, raro esempio di chi lascia una mega galleria a favore della GBE), è stato bello attraversare Manhattan insieme.