Il Foglio Arte
Perdere l'autore per trovare una pittura nuova? Sì, è il momento
Entrare nel XXI secolo. Dialogo con Peter Fischli a margine di “Stop painting”
“La pittura è morta, viva la pittura!” verrebbe da esclamare. Considerata obsoleta, offesa e denigrata, perfino ignorata, la pittura, il mezzo artistico per eccellenza, si trova ripetutamente sotto processo nel dibattito sull’evoluzione dell’arte. Accadde a metà dell’800, con la nascita della fotografia la pittura sembrava non avere più senso di esistere, si trovò invece liberata dalla necessità documentale per evolversi e mutarsi come non era mai accaduto. La pittura, il segno lasciato su un supporto, inizia con la traccia del dito sulla sabbia del bambino e non può finire. Ne parliamo con l’artista svizzero Peter Fischli. L’occasione dell’incontro è la mostra “Stop Painting” da lui curata presso la Fondazione Prada a Venezia (fino al 21 novembre), che esplora le diverse, ripetute battute d’arresto che la pittura ha conosciuto negli ultimi 150 anni. Parole in libertà su un’indagine ricorrente che quanto più si ripresenta, tanto rende la pittura sempre più necessaria.
Francesco Stocchi: Eccoci qui. Ho appena visitato la mostra, che credo fosse pronta un anno fa. Ha subito cambiamenti? E sto parlando della tua prospettiva, non di contrattempi pratici dovuti a fattori esterni. Hai avuto la possibilità di rivedere certe tue posizioni?
Peter Fischli: Certamente. Voglio dire ho iniziato a pensare a questa mostra tre, quattro anni fa. Ho pensato ad essa non come una mostra ma più come una ricerca teorica sui cambi di paradigma e li ho ridotti al tema della pittura. Quest’anno in più che ho avuto, quello che ho capito già all’inizio era che era una tensione che la mostra poteva avere, cioè che si potesse vedere proprio come questa fine della pittura è un problema accademico. Vedere questi cambiamenti che stanno accadendo o questa crisi della pittura o questo suo annuncio funebre che per lo più è stato fatto da voci reazionarie, quelle che volevano un canone stabilito.
Quando un nuovo media o un cambiamento nella società introducevano un nuovo argomento, affermavano che la pittura era morta, ma è sempre stato in queste occasioni che la pittura si è re-inventata. In quest’ultimo anno ho capito che è ancora più importante collegarla o avvicinarla alla realtà o pensare soprattutto l’aspetto del gesto iconoclasta, come 10 anni fa che ci si siamo resi conto che non potevamo più guardare la storia dell’arte solo come qualcosa fuori dal resto, come qualcosa di fondamentalmente bianco e maschile. Questa è in parte una mostra storica e dovrebbe essere uno strumento anche per capire il presente. Questo era nella narrazione, mi sono concentrato un po’ di più su questi gesti iconoclasti.
FS: Gesti come quello di Baldessari che brucia e sotterra i suoi quadri. Tutti abbiamo bisogno di opere per comunicare e per capire e penso anche per pensare. Quindi, c’è Baldessari lì e come spettatore voglio avere un’opzione caleidoscopica. Guardando in generale alla tua posizione si può dire che il punto di vista è chiaramente di qualcuno che opera dall’interno del problema, non come storico dell’arte. Hai detto che hai pensato te in questi momenti diversi, spostando i paradigmi e ciò mi ricorda una mostra che vidi anni fa che curasti a Parigi, una retrospettiva con Susan Page dedicata a Picabia. Era una mostra intensa che ricordo chiaramente e all’interno dell’opera di Picabia c’è anche un forte spostamento, quello di allontanarsi dalle avanguardie fondamentalmente.
PF: E’ uno dei miei artisti preferiti e mi ha fatto capire che questi spostamenti di paradigma o di regole, dogmi e valori che si costruiscono nel lavoro. Devi, prima di lasciarli attaccare all’esterno, essere in grado di attaccare le tue stesse idee. Questo è ciò che Picabia ha fatto così bene e il motivo per cui è una figura leader nel mio pensiero. Mi ha insegnato che come artista devi attaccare tu stesso ciò che stai facendo e cosi puoi dirigerti nella direzione opposta.
Ricordo anche di essere andato a Parigi a vedere la mostra di Picabia da adolescente e mio padre, che era un pittore astratto e un architetto del Bauhaus, era un po’ sconvolto dal suo lavoro e del resto erano esattamente le cose per cui io stavo combattendo. Rimasi poi molto incuriosito dal fatto che Kurt Schwitters stava facendo una cosa simile. Per tutta la sua vita ha fatto quadri molto convenzionali, ritratti di paesaggi e nature morte pur essendo un avanguardista decostruzionista. Ho trovato così interessante che stava ammettendo di essere un dadaista, ma al contempo di essere anche impressionista. Qui ho mostrato un paio di questi Schwitters figurativi e anche un piccolo collage.
FS: Mi piace il tuo testo, come è stato scritto, come se parlassi a te stesso, mi piace il tono. Era quello che dicevo rispetto al giornale [il Foglio, ndr], il tipo di letteratura di cui la critica d’arte ha bisogno, credo, per aprirsi.
PF: Il linguaggio è la stessa cosa. Se ora devo dipingere un tuo ritratto, devo scegliere una forma e con il linguaggio è lo stesso. Non potevo essere uno storico dell’arte, sarebbe sembrato ridicolo.
FS: Come hai detto tu da 10 anni a questa parte abbiamo finalmente capito che la storia dell’arte non può svilupparsi ulteriormente senza sguardi multipli, finirla con il canone unico occidentale che non è solo geografico ma anche di genere e naturalmente di diverse minoranze. Trovo interessante quando citi la pagina web della National Gallery per la definizione di “canone della storia dell’arte” (“Canone della Storia dell’Arte: la convenzionale sequenza di artisti che vengono considerati ‘antichi maestri’ o ‘grandi artisti’. Oggi la storia dell’arte tenta di mettere in discussione questi parametri di ‘grandezza’ considerando aspetti come il genere, l’etnia, la classe e la geografia, tra gli altri”). Rivedere i parametri di grandezza rappresenta uno spostamento verso un aspetto sociologico dell’arte o addirittura antropologico?
PF: Nell’arte, soprattutto oggi, non c’è una narrazione unica ma c’è anche l’altra cosa che è necessario escludere, ossia che l’artista possa fare una teoria comune della realtà politica e sociologica. Penso che non si possa accettare o dire che l’arte deve solo darci dei commenti diretti su quello che succede nel mondo. Penso che sia possibile oggi fare un quadro astratto con 3 punti e una linea. Ma ci sono anche artisti che si rivolgono a fatti molto più politici e artisti che hanno fatto questo anche in passato e che sono stati esclusi dal canone e ora fanno parte del canone, l’esempio più famoso è Faith Ringgold. Non era così interessata a tutti questi problemi di Greenberg, era interessata all’ingiustizia delle persone che vivevano in America o nel suo quartiere.
E questo penso sia qualcosa che abbiamo imparato e che sta accadendo in questo momento.
FS: Giusto-. E il discorso sulla qualità? E’ mutevole o non ne facciamo una priorità?
PF: Questo è esattamente quello che succede in un cambio di paradigma, ovvero che qualcuno dica “questo non ha più qualità”. E la modernità inizia con questo, con chi è nel Salon des Refusés. Quindi, il modernismo inizia ad essere rifiutato quando si viene rifiutati. E tutti sostengono che “non ha qualità artistica”. Certo, non ha qualità artistica per l’idea stabilita. Si continua e si decostruisce l’idea di ciò che ha qualità.
FS: Assolutamente, ma ora l’attenzione è più sull’identità dell’autore che sull’opera d’arte, che diventa quasi inseparabile dall’opera stessa.
PF: Sì, penso che questa sia un’idea chiave. Non credo in questa idea dell’autore unico.
Voglio dire, questo è stato come Roland Barthes ha trattato il tema del debito d’autore. Sai questa idea, e vale anche per la figura del curatore, come Harold Szeeman, per lui era come la legittimazione.
Era autentico e al di sopra di tutto. Si trattava di un’ossessione che era chiaro notare.
Quello che ho trovato interessante nella Pop Art erano figure come Warhol e Lichtenstein che dicevano: “Tutto nella mia arte è fuori di me”. E questo era un attacco agli espressionisti astratti come Rothko e Pollock che invece dicevano “deve essere dentro di te”. Ed è anche un’idea molto borghese di questa glorificazione del creatore, dell’artista. C’è questo aneddoto di Rothko che ha lasciato una festa che stavano dando per lui quando Warhol entrò nella stanza, perché era proprio il suo contrario.
FS: Ci sono questi cambiamenti che sono stati stimolati e accelerati dalla pandemia e con questa mostra, penso che stiamo entrando nel ventunesimo secolo. Trovo che questa mostra racchiuda bene ciò che è successo, a partire dalla nascita della fotografia, e ora ci troviamo in una moltitudine di canoni. E la mostra mitizza chiaramente questo. Ho cercato di seguire abbastanza da vicino la tua soluzione progettuale dell’allestimento. In primo luogo, mi piace come hai messo Burri, che non è esposto come lui penserebbe, ma c’è una famosa serie di fotografie dove l’artista è guardato attraverso il quadro. E penso che sia un bel modo anche per trasformare il quadro quasi in una scultura, o comunque per sottolinearne la fisicità e la sua materialità.
Ma in generale, ho visto come tu, almeno in questa parte della mostra, non hai voluto seguire la linea classica di allestimento. E così, rompendo un andamento lineare sei palesemente in un loop nello spazio della stanza.
PF: Si ed è come se a volte corressero il rischio, come il Rothko o poi ho un altro Pistoletto lassù. Questo è anche per usare l’intero spazio e a un certo punto che se questo fosse il mio palazzo o se
questa sarebbe stata la mia collezione, l’avrei appesa così ed è per non stare su un solo livello, naturalmente.
E poi è stata anche una mia decisione o un mio progetto perché il palazzo è classico, le stanze sono classiche e seguono l’idea della liquidità modernista.
Non si tratta di dare forma a delle stanze, ma di disegnare muri, ed è fluido. Si cammina. Quindi, ho una doppia possibilità di pensiero architettonico sulla struttura dei muri. Uno è il non riempito e l’altro è il varco che passa attraverso. Ed è come seguire il modernismo, la continuità tra la continuità della stanza. Inoltre, ti mostra in modo letterario che in un certo senso tutte queste cose sono collegate. A volte un lavoro potrebbe essere anche in un’altra stanza, posso cambiarlo.
FS: Ed è strettamente cronologico, naturalmente. E sebbene la mostra sia divisa in cinque crisi della pittura che hai identificato, quindi periodi molto specifici, poi mescoli tutto non seguendo una linea geografica, generazionale o mediatica prestabilita. Possiamo dire che fondamentalmente l’arte non è progressista? Non vuole e non può essere progressista. È questo che volevi dire? L’ho sempre pensato, ma non vuol dire che ne sia sicuro, vorrei quindi sentire la tua opinione. La medicina o la tecnologia sono chiaramente progressiste ma ciò non vale per l’arte...
PF: La vita stessa è progressista o le cose che stanno accadendo. E poi si potrebbe dire che l’arte sta reagendo sulle cose e forse reagisce molto velocemente. Ma penso che l’arte non sia tutta arte. Ma mi piace l’affermazione che l’arte non è progressista. Si potrebbe anche dire che non si può volare con una scultura sulla luna, serve un vero missile.
FS: Questa è la risposta migliore. Un’altra cosa che volevo chiederti riguarda uno dei percorsi, che è “la morte dell’autore”. La settimana scorsa, per la prima volta, i quattro finalisti del Tuner Prize era solo collettivi. Nessuno di loro era un artista singolo.
PF: Non l’ho seguito.
FS: Possiamo entrare all’interno del tema della morte dell’autore in un certo senso?
PF: Certo, non parlerei della morte dell’autore, ma di una certa idea borghese di ciò che è l’artista, quale genio. E inoltre, questo è stato fin dall’inizio parte non solo della pratica che ho costruito con David lavorando insieme, ma poi abbiamo anche fatto dei film come The Red and The Bear, dove si cerca di mettere in discussione la loro regola perché sono come un duo, ma non sono neanche per nulla seri.
Quindi, per mettere in discussione la regola dell’artista all’interno della società o anche nel sistema dell’arte, tutte queste cose sono state fatte in modo esemplare da artisti come Andrea Fraser. Qui ho un lavoro sorprendente perché non è quello che vediamo normalmente quando pensiamo a cosa sta facendo, ma è un lavoro iniziale, e mi piace molto. L’artista ha guardato molto da vicino cosa è l’arte, quali sono le strutture di potere del sistema dell’arte. E sì, qual è la regola dell’artista all’interno di questo, una ricerca molto sociologica che a volte è si è basata sulle teorie di Pierre Bourdieu.
PF: Mi ricordo quando ho avuto questa meravigliosa opera di Olivier Mosset, la porta dipinta che ha dipinto, proprio come un pittore dipingerebbe una porta, come l’artigiano pittore. E poi mi ricordo che cosa mi ha detto quando gli ho raccontato velocemente l’idea della mostra: “Oh, sì. Peter, abbiamo cercato di uccidere la pittura, ma non ci siamo riusciti. Mi piace molto. Abbiamo cercato in tutti i modi di uccidere la pittura”.
FS: Ma dobbiamo solo ringraziare queste persone, la pittura ha potuto continuare grazie a loro.
PF: Certo, e per tornare alla tua domanda di prima, certo che potrei. Sto parlando, tipo, di questo cambio di paradigma ora nella pittura, ma si potrebbe adattare anche, penso alla musica, alla letteratura e sì, è un modello astratto.