Il Foglio arte
Edifici “snelli” o “grassi”? Il dilemma della forma
Se un tempo le strutture più longilinee erano simbolo di ricchezza, oggi invece la tendenza va verso strutture più “sode”. Storia delle “taglie” preferite dall’architettura
Una famosa coppia di incisioni tratta da due disegni di Pieter Brueghel raffigura rispettivamente un magro cacciato da una cucina di grassi e un grasso cacciato da una cucina di magri. Nell’anno di pubblicazione, 1563, le due immagini identificavano le opposte condizioni di contadini poveri e borghesi affluenti nell’Europa del nord, e in Europa per esteso. I primi sottonutriti, i secondi ipernutriti. L’opposizione tra corpi si traduceva anche nello spessore dei muri e nella profondità delle maniche degli edifici che le rispettive classi abitavano, come di nuovo la pittura fiamminga dell’epoca, e soprattutto del secolo successivo, documenta bene. Palazzi con spessi muri portanti e sale profonde per la borghesia affluente, capanni con struttura sottile in legno, tamponata in paglia e calce, con la profondità degli interni limitata dalla precarietà dei materiali, per i contadini. Ovviamente, le condizioni abitative erano di conseguenza dispari, pur in assenza – per tutti – di fognature, acqua corrente e ogni comfort permesso da infrastrutture e impianti, venuti poi con la modernità.
Attribuire caratteristiche – metaforiche, va da sé – di snellezza o pinguedine agli edifici può parere una provocazione dopo ormai due secoli di pensiero tipologico sull’architettura. Questo pensiero ordina gli edifici non a seconda delle loro funzioni, ma delle loro piante e distribuzioni interne. Tuttavia, ora che il progetto di architettura tende inevitabilmente a concentrarsi molto sulla capacità di adattamento degli edifici al cambiamento climatico (“sostenibilità” e “resilienza” sono due parole pressoché imprescindibili nelle retoriche dell’architettura contemporanea), ragionare sulla forma più o meno “snella” o “piena” degli edifici può indurre qualche riflessione forse non fuori luogo. La fisica tecnica insegna che minore è il rapporto fra involucro e volume chiuso di un edificio, migliore è la condizione di partenza per quanto concerne il riscaldamento e il raffrescamento, e dunque il fabbisogno energetico dell’edificio stesso. Per quanto concerne l’involucro, a prescindere dai materiali da cui è costituito, più questo è spesso, migliore è la condizione di partenza dal punto di vista dell’isolamento.
Le metafore anatomiche, peraltro, hanno permeato il linguaggio dell’architettura fin dalla metà dell’Ottocento, e sempre più nel Novecento: da “circolazione” per indicare l’insieme dei percorsi interni di un edificio, a “scheletro” per indicarne la struttura portante, a “pelle” per indicarne l’insieme di facciate e tetto, a “sistema nervoso” per indicarne gli impianti. Questi ultimi giocano il ruolo chiave nel rendere vivibile un edificio, temperandone il clima interno, per parafrasare il titolo – Architecture of the Well-Tempered Environment – di un libro pubblicato nel 1969 dallo storico dell’architettura Reyner Banham, che ha segnato una svolta proprio nella consapevolezza di quanto gli edifici moderni abbiano un grande e crescente fabbisogno energetico.
Se si parla di forma, allora l’edificio perfetto è una sfera, come quella pensata dall’architetto francese Claude-Nicolas Ledoux a fine Settecento per la casa del custode di un parco, mai costruita e del resto non certo pensata con finalità ecosostenibili, che erano ovviamente lontanissime da venire. Nel secondo Novecento invece l’americano Richard Buckminster Fuller, basandosi su strutture geodetiche, ha teorizzato e progettato enormi sfere rivestite di una sottile pelle trasparente dentro le quali fosse possibile creare un clima controllato e costante. Per l’Expo di Montréal del 1967, Fuller effettivamente costruì una gigantesca Biosfera, il cui involucro acrilico bruciò nemmeno dieci anni dopo, lasciando però intatta la struttura metallica, quasi un monumento all’architettura a “vita larga”.
Del resto, fra i manufatti edilizi più ammirati dalle avanguardie architettoniche del primo Novecento, particolarmente da Walter Gropius, che con la sua scuola del Bauhaus ha avuto un’influenza capillare sull’architettura moderna, erano i silos per il grano delle praterie americane e canadesi. Questi piacevano alle avanguardie per i loro volumi semplici, monumentali ma meramente utilitari, e non certo snelli, proprio perché fatti per essere riempiti di derrate alimentari. Sono poi state le neo-avanguardie degli anni Sessanta, con la loro iconoclastia, a promuovere un’architettura letteralmente “gonfia”, con l’introduzione delle pompe pneumatiche per dare in fretta forma a tendoni per eventi, spazi ludici, o arredi. L’architettura gonfiabile e sgonfiabile implica bassi costi, leggerezza, rapidità di installazione e di disinstallazione che parevano poter mettere in crisi, in un’ottica utopistica, addirittura il modello stanziale della città, a favore di uno nomadico. I progetti del gruppo californiano Ant Farm dei primi anni Settanta sono a questo riguardo emblematici, nel loro unire l’aspirazione a un nomadismo erede della frontiera con istanze di educazione diffusa.
Sul fronte della snellezza, gli esempi vanno dagli obelischi egizi (ammesso e non concesso che si tratti di architetture), alle colonne imperiali di Roma, alle torri delle città medievali, ai campanili, alle ciminiere che sostituiscono questi ultimi in due famosi disegni comparativi di John Ruskin, critico e teorico inglese, alfiere della nostalgia ottocentesca verso il medioevo. Del resto, con l’introduzione in edilizia del calcestruzzo armato e in particolare dell’acciaio, la corsa alla snellezza ha raggiunto dimensioni inedite, dalla torre Eiffel alla ex torre littoria a Milano, di Gio Ponti, scheletrica e snellissima. Difficile dire delle torri tv, tanto di moda negli anni Sessanta e Settanta, snelle, in quanto sono enormi colonne di calcestruzzo, ma infilzate verso la sommità da un disco, spesso accessoriato di ristorante girevole panoramico, dove non certo si recuperano calorie bruciate nella salita, che avviene rigorosamente in ascensore.
Il rapporto fra corpi umani e forma degli edifici è interessante, particolarmente sullo sfondo delle attuali oscillazioni fra body positivity e salutismo. Pur considerando che elementi come ascensori, scale mobili e tapis roulant riducono l’attività fisica “implicita” degli abitanti di un edificio, la tipologia conta. Quando nel 2006 la banca Sanpaolo, prima della fusione con Intesa, indisse un concorso a inviti per una torre a uffici da costruirsi a Torino, lo studio olandese MVRDV presentò un grattacielo lineare: un parallelepipedo di alcuni piani e 150 metri di lunghezza appoggiato su due giganteschi piloni-ascensore. La giuria interna obiettò che la principale disfunzionalità della sede storica nella palazzata barocca di piazza San Carlo, nel centro della città, era data proprio dalle camminate lungo i corridoi a cui dirigenti e impiegati erano costretti ogni giorno per passare da una riunione all’altra. Nella torre poi costruita da Renzo Piano certamente l’ascensore vince sui corridoi, ma l’attività fisica “implicita” nella vita quotidiana dei lavoratori è molto minore.
Non sono comunque solo scelte architettoniche a determinare la snellezza di un edificio, ma la cogenza delle norme urbanistiche e civilistiche. Sempre a Torino, la cosiddetta “fetta di polenta” è un edificio residenziale progettato da Alessandro Antonelli a breve distanza dalla sua più nota Mole. Proprio il lato verso quest’ultima è poco più largo di un muro, per aver dovuto rispettare la distanza da un lotto all’epoca ancora vuoto, ma già dotato di diritti di vista. Per passare a città globali, la forma dei grattacieli di New York è il frutto di una successione di regolamentazioni che hanno cercato di salvaguardare la luce del sole sulle strade e sugli edifici più bassi nella città.
Proprio a Manhattan i grattacieli residenziali costruiti e in costruzione lungo la cosiddetta Billionaires’ Row, sul lato sud di Central Park, stanno stabilendo un nuovo paradigma in fatto di snellezza, reso possibile da strutture iper-rigide e da una domanda globale di investimenti immobiliari di lusso estremo. Con altezze che vanno dai 217 metri del grattacielo dello studio SOM ai 470 della Central Park Tower in costruzione su progetto di Smith + Gill Architecture, gli edifici della Billionaires’ Row, risaltano sulla skyline di New York e forse – paradossalmente – evocano un cambio di paradigma in fatto di forma fisica dei corpi: mentre nell’Europa di Brueghel la pinguedine tendeva a contrassegnare la ricchezza, nell’America del Ventunesimo secolo tende a succedere il contrario.