Il Foglio arte - Ritratto d'autore
Le bugie a pois di Yayoi Kusama, un'Alice sotto l'effetto di allucinogeni
L’artista giapponese rappresenta la realtà esplosa in un loop di migliaia di coriandoli, una follia nevrotica la cui misura è l’eccesso e la cui natura è viscerale
Qualcuna volò sul nido del cuculo, ed era lei. Una vita a pois, per la felicità di chi instagrammizza ogni attimo dell’esistenza. Alice nel paese delle meraviglie, ma sotto l’effetto degli allucinogeni. Yayoi Kusama, voce del verbo accumulare. Perché l’arte non risponde né domanda, accumula. Nel territorio artistico di Kusama la realtà lievita, sboccia, esplode, prorompe, si sfarina in migliaia di coriandoli e ogni coriandolo diventa l’estensione del suo piccolo corpo nello spazio infinito. E si ripete ossessivamente, in un loop che dura da decenni e che ha dato forma a un piccolo mondo parallelo, frequentato da uomini/cose stravaganti e delicatamente macabri.
Ogni opera è un viaggio nell’abisso, il suo. La premessa di ogni fiaba è lo spavento. Scriveva Natalia Ginzburg in Senza fate e senza maghi: “Si sa bene che la felicità è fatta anche di spavento e di angoscia. Sopprimere lo spavento e l’angoscia significa sopprimere anche la felicità”. Siate impauriti, siate felici. Ha detto Kusama: “Io converto l’energia della vita nei punti dell’universo”. Tutto il resto è (para)noia. Se Alice attraversa lo specchio, Kusama si fa specchio. Assorbe, riflette, restituisce, inganna, si tramuta in caleidoscopio ed entra in una canzone di De Andrè, Un Ottico: “Daltonici, presbiti, mendicanti di vista/ Il mercante di luce, il vostro oculista/ Ora vuole soltanto clienti speciali/ Che non sanno che farne di occhi normali/ Non più ottico ma spacciatore di lenti/ Per improvvisare occhi contenti/ Perché le pupille abituate a copiare/ Inventino i mondi sui quali guardare”.
Kusama con i capelli turchini, fatina highlander cresciuta in una famiglia dell’alta società nel Giappone degli anni 30 che confida ai genitori di soffrire di allucinazioni visive e uditive e finisce derisa, osteggiata, in esilio dalla vita, relegata in un’eterna infanzia, come la Pimpa di Altan, pure lei a pois. Kusama la Piccola Spiona Riluttante, costretta dalla madre – donna violenta e autoritaria che le strappa i primi disegni – a seguire il padre-fedifrago, pedinarlo nei suoi tradimenti, lungo la traccia di un dolore che le resterà addosso tutta la vita e che sfocerà ovunque, ma più di tutto nella barca a remi – eccola, la scena-madre del tradimento paterno – riempita di falli in tessuto bianco di One Thousand Boats Show.
Kusama, anni dopo, già emigrata in America, sdraiata su un marciapiede della East 14th Street di New York circondata ancora da enormi grappoli di falli, una candida Heidi con le braccia incrociate dietro la testa a reggerle le fantasie. Kusama-Narcisa, che alla Biennale di Venezia lascia scivolare nei canali della città un migliaio di sfere d’acciaio galleggianti sull’acqua. Kusama che si cerca negli specchi, nell’infinity room psichedelica che sembra nata dalla fantasia storta di un Syd Barret, mentre in sottofondo una filastrocca infantile viene ripetuta fino allo spasimo.
Quando se ne va dal Giappone Kusama ha con sé ventinove anni vissuti da reclusa, sessanta kimono e più di duemila tra disegni, bozzetti e dipinti. In America trasforma le sue ansie in un mondo colorato – fiori giganti, zucche extralarge, banane in HD, corni con lo zoom, rimbalzi ottici, puntini e puntini e puntini – diventa amica di Andy Warhol e conosce la gloria. È un flusso di energia destabilizzate e pirotecnico, una piccola follia nevrotica la cui misura è l’eccesso e la cui natura è viscerale.
Quando torna in Giappone – donna-elfo di mezza età con una parrucca rosso fuoco e gli occhi perennemente sgranati – si incaglia in un mondo arretrato, fuori sincrono, sfiorata da un’umanità – la sua gente – che la misconosce, la tiene a distanza e di lei si vergogna.
Ma quella bambina infinita di Alice superati i novanta scopre finalmente di essere in buona compagnia. A milioni – da sessant’anni a questa parte – si sono messi in fila per perdersi nei suoi specchi. Se non fosse vita, sarebbe un film: dal 1977, da quando cioè si è volontariamente ricoverata in un ospedale psichiatrico di Seiwa, la signorina Yayoi Kusama esce ogni mattina per andare a lavorare nel suo atelier. O forse no. L’arte si declina sempre in un tempo per sua natura imperfetto, per cui l’artista non esce più, ma si chiude dentro se stesso. Chissà: è invece bello immaginare che la signorina Yayoi Kusama tutte le mattine del mondo trovi la chiave di un qualche altrove, nell’unico punto di una enorme tela bianca dove ripete balbettando la stessa bugia, una bugia a pois.