Veduta della comunità indiana di Jackson-Heights, Queens, New York (Doug Letterman/Flickr) 

Uno scrittore osserva rinascere le città-mondo

Manuel Orazi

La gentrification buona e le virtù dell’immigrazione. L’Italia un paese speciale. Suketu Mehta, indiano e americano, presenta il suo ultimo libro: l’abbiamo intervistato

Gli scrittori internazionali, quella piccola tribù globale che viene automaticamente tradotta in molte lingue, non accettano di promuovere il proprio libro ovunque. Suketu Mehta, indiano e americano, accetta sempre gli inviti dall’Italia perché “i libri Einaudi ben rilegati e cartonati della collana Frontiere sono tra i più belli del mondo, non come i bestseller americani che cercano attenzione solo per la copertina vistosa”, ma anche perché “vado in quei paesi dove si mangia meglio”.

   
Vegetariano da molti anni, abitudine presa dopo il primo matrimonio, Mehta è stato a Bologna ospite della Fondazione Mast per presentare il suo ultimo libro tradotto, il terzo in italiano, Questa terra è la nostra terra. Manifesto di un migrante (traduzione di Alberto Pezzotta, Einaudi, € 19,50 euro) prima di andare a Torino al Circolo dei lettori. E’ dispiaciuto della scomparsa di Umberto Eco perché lo aveva conosciuto a Nuova Delhi quando era alla terzultima tappa di un viaggio nei dieci luoghi che avrebbe sempre voluto visitare, “Dopo si sarebbe diretto a Timbuctù”. Nonostante la sovrabbondanza di offerta carnivora felsinea, Mehta è rimasto molto soddisfatto dei tortelli di ricotta e spinaci, delle melanzane alla parmigiana e del friggione nonché del gelato assaggiati a pranzo vicino a porta Saragozza.

   

Nella chiacchierata che concede al Foglio però il tema dominante è quello delle città, la vera passione o meglio ossessione dello scrittore newyorchese. Nato a Calcutta in una famiglia di gioiellieri, si è trasferito quasi subito: Maximum City. Bombay città degli eccessi (Einaudi 2004), il primo libro, era dedicato infatti alla città in cui è cresciuto fino ai quattordici anni. Nel 1977 infatti la famiglia ha ottenuto il visto per New York, dove tuttora vive. Negli ultimi anni ha iniziato a scrivere un grande libro sulla Grande Mela. Visitare con lui piazza Maggiore, San Petronio, il Pavaglione o il pasoliniano Portico della Morte, il Compianto sul Cristo morto di Niccolò dell’Arca, il ghetto ebraico con l’eloquente via dell’Inferno, le vie del mercato (via Pescherie vecchie, via Ranocchi, via Drapperie) e del fast food a base di tortellini e prosciutto che occupano militarmente ogni via del centro, specie di sabato con l’isola pedonale, è un privilegio perché Mehta con occhio da regista riesce a collegare ogni fenomeno o epifenomeno anche futile come il rito sociale dell’aperitivo a temi globali, come recita anche il titolo della sua presentazione Confini e città dopo la pandemia. Non a caso ai suoi studenti della New York University mostra sempre un film e ha già collaborato in più di un’occasione con Netflix come sceneggiatore, senza contare i progetti cinematografici ancora in ballo tratti dal suo primo libro popolato da criminali, anche per questo è diventato amico di Roberto Saviano. 

  
Di fronte agli affreschi di Giovanni da Modena nella Cappella dei Re Magi, sorride: “Ho letto delle minacce in rete di qualche estremista islamico offeso perché Maometto è uno degli eretici illustri inserito in questo inferno, ma in realtà la cosa che mi colpisce di più di questa scena è che Satana è blu scuro proprio come viene rappresentato Krishna in India”. Non insistiamo sulla questione satanica, vista anche la vicinanza fra Mehta e Salman Rushdie, all’Università hanno gli studioli di ricevimento uno accanto all’altro – l’autore di Versetti satanici scrive di norma giudizi estremamente positivi sul lavoro dell’amico e collega. Mehta a differenza di Rushdie, è totalmente assorbito dal giornalismo: è la materia che insegna, i suoi due figli hanno fanno entrambi i giornalisti, Maximum City è un reportage così come La vita segreta delle città (Einaudi 2016) e le sue opere affrontano i problemi principali dettati dalla realtà dei fatti problematici come l’immigrazione che naturalmente lo riguarda in prima persona. Prevale però sempre il punto di vista urbano nelle sue attività giornalistiche che conferiscono alle sue osservazioni una plastica concretezza e per questo sono pubblicate su New Yorker,  New York Times Magazine, National Geographic, Granta, Harper’s Magazine, Time e Newsweek: “Di questi tempi la conversazione sulla pianificazione urbana è come la messa in latino, appesantita da un gergo volto a rafforzare le barriere che circondano la corporazione professionale […] A quanto mi risulta non esiste alcun programma congiunto fra dipartimenti universitari di pianificazione urbanistica e giornalismo” e ovviamente è un peccato, lui ne sarebbe un magnifico direttore. Il fatto che oltre metà della popolazione mondiale viva ormai in città è il motivo di fondo di questo interesse, ma non l’unico. “Bisognerebbe studiare le città allo stesso modo con cui si studiano i paesi. Ognuna ha una sua cultura, come i paesi hanno una cultura nazionale […] Entro la metà di questo secolo, sarà costituito da immigrati il 72  per cento della popolazione statunitense e circa il 78  per cento di quella australiana e inglese. Ciò ha effetti sulla politica, sulla cultura e sulle città – su ogni cosa. La migrazione di massa è il principale fenomeno umano che caratterizza il XXI secolo”.

  

L’ultimo libro parla sempre di città con un doppio zoom che ingrandisce (le frontiere) o che ne mette a fuoco alcuni quartieri come Jackson Heights ovvero la parte del Queens dove ha frequentato le scuole secondarie. Le osservazioni di Mehta sono infatti circostanziate: in appendice al volume ci sono quasi quaranta pagine di riferimenti alle fonti consultate per costruire i propri argomenti che confutano ogni possibile xenofobia. I migranti rendono più ricche e più sicure le metropoli che non hanno più un ceppo etnico dominante come New York o Londra, la grande e la piccola criminalità ha conosciuto un crollo verticale mentre il commercio e altre attività hanno conosciuto un rilevante balzo in avanti grazie all’economia sommersa che da sempre caratterizza le comunità dei sans papier. 

 
Questo dovrebbe rendere l’Italia un contesto arretrato, ma allora perché ci viene volentieri, solo per i tortelli alle erbette? “No, l’Italia è speciale. Quando guardavo da New York le immagini delle città italiane deserte non avrei mai pensato che presto sarebbe successo anche a Manhattan. Le città italiane, così varie e uniche, hanno formato il concetto stesso di città per il resto del pianeta, ognuna con un forte senso del proprio hinterland, un senso regionale che mi piace molto, in questo senso penso che ancora possano rappresentare il futuro. Nutro una grande fiducia nella città in generale anche se ultimamente ho comprato una casa in campagna nel North Carolina, dove facciamo l’orto fra l’altro”. 

 
Crede dunque, come molti architetti e urbanisti ritengono oggi, che le città verranno abbandonate in favore dei piccoli centri di campagna? “No. La campagna e la natura, per chi vive in città, è roba da ricchi: se vivi in uno dei grattacieli di Manhattan (quelli ora vuoti per il 40 per cento) e arriva il Covid puoi sempre andartene nella tua seconda casa di Long Island, ma se vivi in un seminterrato a Jackson Heights o a Brooklyn, beh allora non hai scelta. Penso che la città ora sia migliorata, più vivibile, per esempio il pubblico ha strappato la strada alle automobili. In questo senso ora New York è più europea”. 

 
Non è dunque spaventato dalla gentrification? “Penso che la gentrification sia come il colesterolo: c’è quello buono e quello cattivo. Anche i banchieri si stanno abituando all’idea che un po’ di ricchi se ne vadano da Mahattan, dopotutto ce n’erano troppi prima e per questo avevano reso la città inaccessibile ai più. Mio figlio ha fatto il college per studiare giornalismo a Chicago e quando sono andato a trovarlo prima del diploma, nessuno dei suoi compagni di studi stava progettando di provare a venire e lavorare nella Grande Mela. Quest’anno improvvisamente gli affitti si sono abbassati e così, al contrario, la metà di loro si è decisa a venire. A volte penso che così come le foreste a volte hanno bisogno di un incendio per rigenerarsi, così le città hanno forse bisogno di uno shock come la pandemia per rinascere”. 

Di più su questi argomenti: