fauna d'arte
La disciplina dell'attesa di Cesare Viel
"Mi sento a volte un transgender: scrittore in un corpo d’artista o viceversa. Emily Dickinson mi fa sentire in buona compagnia"
Fauna d'arte è una ricognizione intergenerazionale sugli artisti attivi in Italia. Ci facciamo guidare nei loro studi per conoscere dalla loro voce le opere e i modi di lavorare e per capire i loro sguardi sull’attualità. Il titolo si ispira a una sezione di Weekend Postmoderno (1990), il romanzo critico con cui Pier Vittorio Tondelli ha documentato un decennio di cultura e società italiana. A differenza del giornalismo e della saggistica di settore, grazie a “Fauna d’arte”, Tondelli proponeva uno sguardo sull’arte contemporanea accessibile e aperto, interessato a raccontare non solo le opere ma anche le persone, il loro modo di vivere dentro l’arte.
Oggi questo approccio ci permette ancora di parlare degli artisti, ma in futuro anche delle altre figure professionali come critici e curatori, galleristi e collezionisti, con lo scopo di restituire la complessità di un sistema attraverso frammenti di realtà individuali.
Nome: Cesare Viel
Luogo e data di nascita: Chivasso (TO) 1964
Galleria di riferimento e contatti social: Galleria Pinksummer, Genova.
L'intervista
Intervista realizzata in collaborazione con Giulia Bianchi
In che modo hai iniziato a fare l’artista?
La condizione dell’artista visivo riguarda un’attitudine mentale ancor prima di trasformarsi in un mestiere. Ho iniziato a fare l’artista da laureando in Lettere, come autodidatta, senza aver compiuto studi canonici all’Accademia. Da adolescente, come succede a molti, cercavo delle illuminazioni e dei modelli di riferimento inseguendo un istinto di libertà e sopravvivenza, una pulsione all’autonomia e alla ricerca dell’assoluto. Ricordo ancora l’urto emotivo che provai nel vedere per la prima volta un quadro di Matisse e nell’ascoltare con un compagno di scuola la registrazione di Le Sacre du Printemps di Stravinskij diretta da Pierre Boulez. Avevo circa 14 anni quando lessi Natalia Ginzburg, che nel suo Le piccole virtù aveva detto: “Per quanto riguarda l’educazione dei figli, penso che si debbano insegnar loro non le piccole virtù, ma le grandi. Non il risparmio, ma la generosità e l’indifferenza al denaro; non la prudenza, ma il coraggio e lo sprezzo del pericolo; non l’astuzia, ma la schiettezza e l’amore alla verità; non la diplomazia, ma l’amore al prossimo e l’abnegazione; non il desiderio del successo, ma il desiderio di essere e di sapere”. Trovo queste parole ancora oggi rivoluzionarie per la loro verità e onestà. Tanto che la scrittura di Natalia Ginzburg è rimasta per me una scuola di stile. Poi, sempre durante l’adolescenza, un’ulteriore spinta motivazionale - un modello di attitudine mentale e creativa - fu la lettura di Gertrude Stein, soprattutto la sua Autobiografia di Alice Toklas e il meta-romanzo The Making of Americans. In seguito, come dicevo, c’è stata l’Università, la Facoltà di Lettere a Genova - ricordo le lezioni di letteratura di Edoardo Sanguineti e quelle di Storia della critica d’arte di Marisa Dalai Emiliani -, e l’incontro con un gruppo di giovani intellettuali, poeti e artisti coetanei, compagni di strada con cui ho iniziato a collaborare, condividere idee e fare mostre in giro per l’Italia, Roma, Milano, Torino, Bologna, a partire dalla fine degli anni Ottanta. Da lì sono entrato nel fantastico “mondo dell’arte”.
Com’è organizzata la tua giornata di lavoro?
Non sono un tipo particolarmente metodico, uno che si organizza secondo un preciso piano strategico per la giornata; questo però non vuol dire che non abbia un rigore, una mia disciplina. Tendo a essere più un ossessivo. Quando un progetto e un’idea mi convincono posso lavorare senza mai smettere, come preso in un vortice. Ma posso attraversare anche lunghi periodi in cui apparentemente non faccio nulla. Solo spostare virgole e matite. Ho bisogno di spazi vuoti - senza scopi - tra un progetto e l’altro. Questo è il mio metodo di lavoro: seguire una pista come un cane randagio, scrivere, leggere, attendere, portare l’attenzione all’interno, ascoltare e osservare dentro di me, incominciare a fare qualcosa, fermarsi ancora, leggere di nuovo, ripensare di nuovo, prendere le misure di quello che ho pensato e realizzato fino a quel punto, ricominciare a fare, uscire, ritornare, non fare nulla ancora per un po’, poi riprendere cercando di ritrovare il filo e così via. È un processo a volte contorto, a volte fluido, altre volte si interrompe e rimane sospeso. Anche questo serve. È interessante quello che resta fuori dal progetto, là per aria da qualche parte, ad aspettare il momento giusto.
A che cosa stai lavorando?
Sto approfondendo il rapporto, sotto traccia, che avverto sempre più tra la pratica del disegno - per disegno intendo anche la dimensione della scrittura a mano -, l’installazione e la performance, in una sorta di disciplina dell’attesa, dell’attenzione e dello sguardo. Disegnare, performare, cercare un rapporto attivo con lo spazio, sono pratiche che producono e scavano un campo di relazioni e rimandi, modalità operative - ciò che Gertrude Stein chiamava the Making - da ascoltare, interrogare, sondare con calma, continuamente.
Ci racconti come nasce e si sviluppa il tuo interesse per Emily Dickinson?
Si tratta di un profondo interesse per la pratica poetica e narrativa di autori e autrici della letteratura che hanno messo in gioco una dimensione performativa - non solo descrittiva - del linguaggio, intendendo un modo di agire il corpo e le emozioni con le parole, nella scrittura. Emily Dickinson è da comprendere in questa famiglia allargata, come Virginia Woolf, Gertrude Stein, Ingeborg Bachmann, Natalia Ginzburg o, tra gli uomini, Cesare Pavese, Dino Campana, Kafka, Thomas Bernhard, Roland Barthes o Gianni Celati. Ho sentito che volevo entrare in relazione con Emily Dickinson scrivendole una lettera, per stabilire un contatto a distanza - lei che aveva dichiarato di aver scritto la sua lettera al mondo senza ottenere in cambio mai una risposta -, e fare di questo dialogo un progetto di natura performativa e installativa, includendo anche uno spazio significativo per il disegno. Questo rapporto con Emily ha avuto una prima tappa nel 2001 (sull’onda degli eventi traumatici del G8 di Genova e del crollo delle Twin Towers); da lì erano nati tra il 2001 e il 2003 un libro d’artista, un ciclo di disegni e una performance. Quel dialogo si è rinnovato ora, dopo più di vent’anni, anche grazie all’invito e allo stimolo di Francesca Verga e Zasha Colah, le due curatrici della mostra I’m gone. Do you remember me?, cui partecipo ad Ar/Ge Kunst, a Bolzano (la mostra resta aperta fino al 27.04.2024). Così si è fatta avanti l’idea di scrivere a Emily Dickinson una nuova lettera performativa e di realizzare un nuovo disegno - su un grande foglio bianco di carta da pacchi - per aggiornarla su quanto sta accadendo. In un periodo storico come l’attuale, in cui tanti conflitti sono esplosi in più parti del mondo, la voce e il pensiero di Emily Dickinson risultano ancora più importanti e necessari, per quel suo carattere di delicata potenza, per lo sguardo sempre originale, visionario, paradossale, così intimo e interno e, allo stesso tempo, aperto e spalancato sul tempo e sullo spazio. E anche per quel suo strano, ostinato comportamento nel decidere di rimanere appartata eppure, da quella posizione di clausura volontaria, continuare a partecipare alla vita ed essere presente anche per gli altri, non smettendo mai di comporre le sue poesie su frammenti di carta o su angoli di buste. Mi torna in mente, per associazione, l’artista Sol LeWitt quando aveva dichiarato che i concettuali sono dei mistici e, aggiungo, irrequieti e irrisolti. Tra arte visiva e pratica della scrittura scorre da sempre un profondo rapporto. Per dirla con una battuta, mi sento a volte un transgender: scrittore in un corpo d’artista o viceversa. E Dickinson mi fa sentire in buona compagnia.
Come affronti il rapporto tra l'effimero della performance dal vivo e la durata o la permanenza dei disegni o dei testi scritti?
Accettando e tenendo conto - sullo sfondo del processo complessivo - della dimensione “ontologica” dell’opera come traccia, come frammento (qualsiasi essa sia, qualsiasi medium venga utilizzato), secondo il modello epistemologico che Carlo Ginzburg aveva messo a fuoco in Spie. Radici di un paradigma indiziario. Esistono infiniti gradi di maggiore o minore solidità e fluidità nelle cose, nei gesti, nelle azioni, nelle pratiche, nelle opere. Permanenza e impermanenza sono qualità della realtà con cui un artista deve fare i conti. Il rapporto tra l’effimero e il durevole è un’indagine, una domanda costante, e rientra in quella Consistency che Italo Calvino non riuscì a scrivere.
Quali sono i tuoi riferimenti visivi e teorici?
Variano con il tempo e con la vita, però restano delle pietre miliari nella mia formazione, nell’ambito delle arti visive, ad esempio, il Concettuale storico degli anni Sessanta-Settanta del Novecento negli aspetti performativi, processuali e installativi, ma anche teorici. Con artisti come Bruce Nauman, Gordon Matta-Clark, Eva Hesse, Vito Acconci, Ana Mendieta, Bas Jan Ader, John Cage, Giuseppe Chiari, Vincenzo Agnetti, Luciano Fabro (fondamentale fu per me leggere il suo libro Attaccapanni), Emilio Prini, Giulio Paolini e Boetti. Poi, da qualche parte nella mia testa, spunta anche il cinema di Federico Fellini e di Ingmar Bergman. Nell’ambito più puramente teorico: il pensiero femminista da Carla Lonzi a Adriana Cavarero, da Judith Butler a Rosi Braidotti; e tra gli uomini Ludwig Wittgenstein, Roland Barthes, Michel Foucault, Gilles Deleuze, Aldo Giorgio Gargani.
Come scegli il medium o la combinazione di medium per esprimere concetti specifici o comunicare attraverso la tua arte?
Devo sempre trovare un equilibrio convincente tra il medium e il concetto, in una tensione che non snaturi il progetto ma sappia includere l’inatteso. Un’idea, ma anche un’emozione, emergono nella mente e si traducono in mezzi espressivi che ritornano e si intrecciano di volta in volta su piani diversi: possono essere la scrittura a mano, l’uso delle parole e delle frasi, l’uso della voce, del suono, il disegno, il corpo, certi materiali come carta, feltro, terra, pietre. Comunque deve esistere una stretta corrispondenza tra l’idea, l’emozione e il medium; si devono tenere insieme. Inoltre, lo spazio fisico in cui si troverà il lavoro è l’ultima cosa che decide le scelte, anche di carattere più tecnico e formale. Non nascondo che a volte c’è anche un procedere a tentoni, accettando di non sapere quale sia la strada più adatta, ma a un certo punto si deve prendere una decisione e accettarne le conseguenze.
Che cos’è per te lo studio d’artista?
Prima di tutto un luogo dove ti senti a tuo agio, dove ti puoi raccogliere per sondare le tue intenzioni e concentrarti. Deve essere un posto abbastanza luminoso e tranquillo. Nello studio provo anche le performance, registro gli audio, disegno. E poi leggo e scrivo. È in fondo anche un rifugio, una tana.
Disegnare è anche una pratica di meditazione. Bisogna saper aspettare: il senso complessivo dell’immagine appare alla fine, come una sorpresa
Mentre lavoro in studio, mi capita di salire spesso su una sedia, o su una scala, per vedere meglio le opere dall’alto, e da una certa distanza
Srotolare tutta una frase sul pavimento per capire che cosa succede
Qual è la funzione dell’arte oggi?
L’arte è un processo appassionante, per me soprattutto la ricerca di una forma e di un linguaggio non scontati, non rigidi. In questo periodo in cui tutto viene schiacciato sul gradimento, sulla prestazione e sulla produttività, all’arte si chiede di assolvere a una funzione di intrattenimento e di efficienza in termini quantitativi di restituzione economica, compresa una sempre maggiore partecipazione di pubblico. Ma l’arte che mi interessa ha poco a che fare con questi parametri. Per me l’arte non crea facili soluzioni, ma genera domande alle quali si risponde con altre domande. In questo senso l’arte dovrebbe aiutare ad attivare un pensiero critico su di noi e sulla realtà. Per spostare lo sguardo, e aprire fessure per sentire e pensare diversamente. È un mettersi molto in gioco, senza considerare nulla come acquisito una volta per tutte.
Le opere
Accendere una lampada e sparire. Una lettera a Emily Dickinson, 2024, veduta dell'installazione, disegno incorniciato, lampada, 19 fogli manoscritti, sedia. Ar/Ge Kunst, Bozen/Bolzano, crediti fotografici Tiberio Sorvillo e Ar/Ge Kunst. Courtesy Pinksummer.
Leggere una lettera a Emily Dickinson, accendere una lampada, lasciare i fogli a terra, andare via. Per Dickinson i poeti accendono lampade le cui scintille superano le distanze spazio-temporali.
Una lettera a Emily Dickinson, 2024, grafite, carboncino, inchiostro, matite colorate su carta da pacchi, 100x140 cm., Ar/Ge Kunst, Bozen/Bolzano. Foto Alice Moschin. Courtesy Pinksummer.
Disegnare, come scrivere, è delimitare un abisso con l'aria. Passare un’immagine da una fotografia al suo disegno a mano è una specie particolare di pratica della traduzione.
03) Infinita ricomposizione, 2019, performance e installazione, PAC, Milano, foto Lorenzo Palmieri. Courtesy Pinksummer.
Continuare a spostare tutto, spostare corpi, colori, frasi e feltri, immaginare di continuare a spostare e respirare tutto.
Il giardino di mio padre. Gli oggetti sotterrati, 2019, performance e installazione, PAC, Milano, foto Lorenzo Palmieri.
Come in un sogno scavare nel terreno con le dita, cercare alcuni oggetti appartenuti al padre, lasciarli fuori, guardarli e pensarli per un po’, poi risotterrarli.
Scrivere il giardino, 2020, veduta dell'installazione, Galleria Pinksummer, Genova, foto Alice Moschin. Courtesy Pinksummer.
Per fare un giardino: lasciare porzioni vuote di spazio, aprire interstizi, provare a camminare e a ricordare, tornare indietro, ricominciare da capo.
Corpo estraneo. Toccare un tesoro, 2023, tappeto intessuto a mano, pura lana vergine, cm. 200x300, Villa Zito-Fondazione Sicilia, Palermo, foto Fausto Brigantino. Collezione Museo Riso, Palermo.
Un tappeto è un orizzonte su cui corpo e sguardo possono adagiarsi, una zattera di salvataggio contro il caos del mondo, una promessa di felicità e di raccoglimento.
Gertrude. The Making of Americans, 2019, installazione permanente, 3 massi da scogliera, intervento audio in loop. foto Carlo Rossini. Collezione Rossini, Briosco (MB).
Restare seduti su una pietra, ascoltare una voce registrata che legge un brano di Gertrude Stein, osservare il rapporto che nasce tra le parole, le emozioni e l’ambiente circostante.
Massi da scogliera, 2022, grafite, carboncino, matite colorate su carta da pacchi, 108x148 cm., incorniciato, foto Fausto Brigantino. Courtesy Pinksummer, Genova.
Tracciare a matita massi da scogliera, ammucchiati l’uno sull’altro per proteggere la costa dall’urto delle onde. Disegnare un’immagine per circoscrivere un’altra dispersione: quella dovuta alla progressiva perdita di senso nel linguaggio.
L'inaspettato, 2023, grafite e matite su carta, 70x50 cm. Foto Alice Moschin. Courtesy Pinksummer.
Nel bosco - come in un campo di battaglia - grumi misti di sassi e di radici. Come una talpa cieca scavo nel fango e metto a fuoco - dopo - molte linee che proseguono sul foglio in tutte le direzioni.
Condividere frasi in un campo allargato, 2022, veduta dell’installazione, Galleria Milano, Milano, foto Roberto Marossi.
Agire la scrittura nello spazio, creare un paesaggio di frasi sulle pieghe di un grande piano di composizione, vedere frasi a perdita d’occhio.