fauna d'arte
L'errore che rivela la visione delle macchine. Chiacchierata con Irene Fenara
La ricerca sulla circolarità visiva e l’uso di videocamere di sorveglianza per esplorare nuove estetiche. L’importanza dei glitch nelle immagini digitali: "Non sono difetti, ma modi unici di percepire il mondo. L'arte è un esercizio di libertà. Il mio studio? È spazio mentale". Una nuova mostra al MACTE di Termoli
Nome: Irene Fenara
Luogo e data di nascita: Bologna 1990
Galleria di riferimento e contatti social: ZERO… Milano
L'intervista
Intervista realizzata in collaborazione con Anna Setola
A che cosa stai lavorando?
In questo momento sto lavorando a una mostra personale a cura di Caterina Riva per gli spazi del MACTE di Termoli, che inaugurerà il 18 ottobre. La mostra giunge a seguito del 63 Premio Termoli dello scorso anno, dove ero stata presentata da Alessandro Rabottini. Sono particolarmente felice di quest’opportunità perché è un museo prezioso e molto affascinante, posto in cima a una collina, con la sua architettura formata da una rotonda centrale più sette piccole stanze derivanti da un ex mercato rionale. Ho lavorato, infatti, dallo spazio su un’idea di circolarità, visione e panorama. Con questa mostra porto avanti, inoltre, la mia ricerca sulle immagini provenienti da videocamere di sorveglianza, dispositivi ottici costantemente presenti nella nostra quotidianità e che sorprendentemente producono immagini inaspettate, portando sempre un pochino oltre la questione estetica e riflettendo sulla scelta come atto poetico.
Che cos’è per te lo studio d’artista?
Lo studio per me è principalmente uno spazio del pensiero, non ho particolari necessità di spazio fisico, quanto mentale. Ho bisogno di uno spazio dedicato all’esercizio della libertà, su cui bisogna lavorare sempre. In maniera secondaria lo studio è uno spazio necessario alle prove, ma queste possono accadere anche altrove, a volte lavoro direttamente nello spazio espositivo... mi viene in mente, anche per esperienza recente, la mia personale da ZERO… lo scorso febbraio. In quel periodo non avevo uno studio e ho utilizzato lo spazio della galleria come terreno per la ricerca, accompagnata poi da uno staff fantastico. Gran parte del tempo lavoro a computer selezionando immagini digitali. Lo studio diventa essenziale nel momento in cui le immagini escono dallo spazio virtuale dove nascono e devono essere in grado di diventare un corpo per reggere lo spazio che le accoglie. Dare corpo a un’immagine digitale significa per me portarla in un’altra dimensione, più vicina alla nostra: questo è l’unico modo in cui possiamo comprenderla meglio perché diventa parte della nostra esperienza fisica.
Come vivi la relazione simbiotica fra le tue opere e lo spazio espositivo?
Credo che sia qualcosa che ha a che fare con l’atto della visione stessa, un atto prospettico che ci fa riflettere sul nostro stare nel mondo, anche in relazione a come ci collochiamo rispetto a ciò che guardiamo e al contesto tutto. Ci disponiamo e muoviamo nello spazio grazie all’opera che stiamo guardando.
Quali sono i tuoi riferimenti visivi e teorici?
Tutte quelle cose in cui mi riesco a riconoscere e che risuonano in un modo o nell’altro in me.
Nel tuo lavoro, spesso emergono glitch o distorsioni involontarie. Come interpreti questo processo?
Ogni videocamera che utilizzo nel mio lavoro registra il mondo in maniera diversa, l’una dall’altra secondo il modello, e diversamente rispetto a ciò che potremmo vedere noi in quella stessa posizione. Ad esempio c’è una certa marca di videocamere che percepisce in maniera errata la luminosità e quando c’è troppa luce modifica i colori rispetto ai quali noi siamo abituati a vedere. Questo mi fa pensare che in fondo quella distorsione sia solamente il modo particolare di vedere di quella specifica macchina, più che un errore. La videocamera di sorveglianza poi è uno strumento che ha dei grandi limiti tecnici e produce molti errori di percezione. L’errore in realtà è la caratteristica principale, la specificità di un dispositivo rispetto a un altro, quello che determina la sua visione. Le tecnologie vengono costruite dall’uomo e nel determinare delle funzioni vengono fatte delle scelte e tralasciati altri aspetti. Approfondire questi aspetti è per me fondamentale per comprendere a fondo questi strumenti attraverso l’estetica che producono.
Come influisce la trasformazione delle immagini digitali nel rapporto fra originale e riproduzione?
Le immagini digitali, in linea teorica, possono essere riprodotte anche un numero infinito di volte senza perdita di dati e per questo non è possibile distinguere una copia di una copia dall’originale da cui deriva, a differenza di altre tecniche. Sono però anche immagini dalla natura impermanente e fragile perché possono facilmente essere copiate, modificate e cancellate. Se è vero quindi che sono sempre riproducibili e uguali all’originale è vero anche che sono trasformabili molto velocemente. Trovo questo dualismo stimolante non solo per motivi di conservazione dell’immagine, ma lo trovo anche molto interessante dal punto di vista concettuale. Ho deciso, infatti, di stampare in edizione unica le immagini con cui lavoro. Sono stampe a getto d’inchiostro di file digitali di cui non esiste un vero e proprio originale. Nel mio lavoro la stampa assume quindi un ruolo primario, nella sua presenza fisica decisiva.
Qual è la funzione dell’arte oggi?
L’arte permette di aprirci e renderci partecipi di visioni altre rispetto alla nostra, a punti di vista potenzialmente infiniti che, se siamo in grado di cogliere, ampliano la nostra visione del mondo.
In che modo hai iniziato a fare l’artista?
L’esigenza di esprimersi è una necessità che non si può far tacere.
Com’è organizzata la tua giornata?
Ho sempre avuto paura della routine, perché temo possa paralizzare il pensiero. Non ho paura però di ripetere lo stesso gesto all’infinito, quella è un’azione meditativa al contrario, sono due cose diverse. Provo questo terrore che mi porta ad avere giornate mai uguali che alla fine quasi desidererei sapere cosa farò esattamente domani. E a volte viaggio per ore, in macchina o in treno, per fare un autoritratto da una videocamera di sorveglianza spersa chissà dove.
Le opere
Irene Fenara, "Supervision (Storm)", 2024, video, 14'43'' loop, installation view “Grandi lucenti” ZERO…, 2024, ph credits Roberto Marossi, courtesy l'artista; ZERO... Milano
Irene Fenara, "Supervision", 2024, stampa su carta da lucido, 390x490 cm, installation view “Grandi lucenti” ZERO…, 2024, ph credits Roberto Marossi, courtesy l'artista; ZERO... Milano
Irene Fenara, "Struggle for Life", 2016, video, 19'52'' loop, installation view "PANDEMIC (vol. 21)" ZERO..., Milano 2021, ph.credits Roberto Marossi, courtesy l'artista; ZERO... Milano
Irene Fenara, "Struggle for Life ๏", 2016, video, 21'51'’ loop, installation view “Digital Antibodies” a cura di Ilaria Bonacossa, MAXXI, Roma 2023, ph.credits Olimpia Piccolo, courtesy l'artista; ZERO... Milano
Irene Fenara, “Supervision”, 2024, stampa a getto d’inchiostro su carta baritata, 56x75 cm, ph.credits Roberto Marossi, courtesy l'artista; ZERO... Milano
Irene Fenara, “Supervision”, 2022, stampa a getto d’inchiostro su carta baritata, 135x180 cm, installation view “How Far Should We Go?” curated by Rossella Farinotti, ICA, Milano 2022, ph.credits Cosimo Filippini, courtesy l'artista; ZERO... Milano
Irene Fenara, “Self Portrait from Surveillace Camera”, 2021, stampa a getto d’inchiostro su carta baritata, 30x50 cm, ph.credits Roberto Marossi, courtesy l'artista; ZERO... Milano
Irene Fenara, “MEGAGALATTICO”, 2017, video installazione, installation view “Family Matters” Gelateria Sogni di Ghiaccio, Bologna 2017
Irene Fenara, "Supervision", 2024, stampa su carta blueback, 300x600 cm, installation view “Grandi lucenti” ZERO…, 2024, courtesy l'artista; ZERO... Milano
Irene Fenara, "Supervision", 2021, stampa su carta blueback, 300x400 cm, installation view "Leaves and other Blurrings" Gelateria Sogni di Ghiaccio, Bologna 2021