Arte (non più) Povera. Una mostra a Parigi svela un rischio: che il narcisismo oscuri una corrente artistica

Francesco Stocchi

Nella mostra appena inaugurata alla Bourse de Commerce c'è tutto: la vetrina internazionale, l’expertise, il momentum. Ma attenzione a non trasformarla in una enciclopedica fiera delle vanità: l'esercizio che manca è quello dell’equilibrio. Il precedente di Rothko, le pressioni sui direttori dei musei, il problema dei finanziamenti

Arte Povera, copyright Germano Celant. Poche definizioni si sono rivelate più puntuali al punto da erigersi a slogan mondiali, intraducibili, riferiti all’ultima avanguardia che l’Italia abbia conosciuto. A differenza di altri movimenti coevi quali il Minimalismo, la Pop Art, la Land Art, l’Arte Concettuale, che sono fondamentali nella ridefinizione di cosa può essere un dipinto, una scultura e più in generale a cosa ci si riferisce quando si parla di opera d’arte, l’Arte Povera rifiuta l’idea di un unico stile identificabile. Essa contiene un po’ tutti gli ingredienti di ciascuno dei movimenti solo che se ne differenzia con garbo e orgoglio, abbracciando il mistico, celebrando il mitologico e l’arcaico.

 

Se il Minimalismo è nato negli Stati Uniti, ma di artisti minimalisti ne esistono ovunque, non esiste un artista “poverista” che non sia italiano. L’Arte Povera presenta questa forte identità malgrado i primi artisti radunati nel settembre del 1967 sotto questo epiteto in occasione della mostra alla Galleria La Bertesca di Genova avessero, alla fine, poco in comune fra di loro. Si trovano degli aspetti simili che, appena si teorizzano, trovano motivo di smentita. Magie italiane che si possono forse radunare sotto il concetto di uno spirito che enfatizza il personale, un modo di fare arte nel mondo e con il mondo. La diversità si è nel tempo rivelata una forza unificante, aprendo a possibilità creative alternative. 


 

Quindi, la mostra “Arte Povera” inaugurata da pochi giorni presso La Bourse de Commerce, Collezione Pinault, a Parigi, che comprende più di 250 opere storiche e contemporanee è l’occasione per celebrare un movimento unico, vetrina internazionale, motivo di studio per certi o di scoperta per altri e orgoglio nazionale in terra francese. Scusate se è poco. Affidata alla curatela della brava ed esperta Carolyn Christov-Bakargiev, al culmine di una carriera ai vertici internazionali, le premesse della mostra sono chiare.

 

   

In un’epoca in cui tutto è astratto e la tecnologia attraverso la quale sperimentiamo il mondo è opaca, c’è bisogno di tornare alle origini e affermare perché la vita incarnata conta. Ecco perché un’esposizione di Arte Povera è importante oggi. Un’analisi di rapporto tra umano e non umano attraverso la celebrazione del movimento.

 
C’è quindi tutto, la vetrina internazionale, l’expertise, il momentum, la capacità produttiva pressoché senza limiti, ma non per forza la somma di tutte le unità equivale al risultato finale. Una mostra composta di opere eccellenti può per difetto di misura banalizzare il messaggio con una coabitazione delle opere impropria al linguaggio poverista. Perché se un’opera d’arte può vivere in termini assolutisti rispetto alle altre, una volta inserita in una mostra (che non è altro che la teatralizzazione di un’idea nello spazio), questa è invitata a entrare in dialettica con il resto, affermarsi e magari aprirsi a nuovi significati. Altrimenti le mostre si riducono a magazzino dell’accumulo e se questo accumulo è prezioso, a fiera delle vanità. L’Arte Povera come quella Concettuale, la Minimal, sono linguaggi processuali dove il cammino per giungere all’opera è tanto importante quanto il risultato finale. Se spazio, aria, vuoto, movimento sono annullati, si annulla l’energia che caratterizza le opere e il rischio è quello di vedere esposta una ricca infilata di lavori magistrali, forse la più ricca mai adunata di “risultati finali” che non offrono modo di capire da dove sia uscita questa idea che appare ai nostri occhi. 

  

   
Se raccolte in un volume di immagini, su un sito internet, a illustrazione di un saggio, la maggior parte di queste opere sarebbe oggetto di attenzione, stupore e meraviglia per l’originalità e l’innovazione che porta con sé, anche a sessant’anni dal concepimento. Ma se questa lista di opere unica e privilegiata si presenta nello spazio, l’esercizio dovrebbe essere quello dell’equilibrio e della selezione più che dell’addizione se non si vuole rischiare di dimenticare la natura stessa delle opere. Lo spirito che le caratterizza. Gli ottimi risultati vengono dagli artisti ancora in vita, quindi con possibilità di parola e di intervento, che sono riusciti a controllare il senso dato alle loro stesse opere.

 

Una caratteristica di deriva cognitiva simile l’avevo registrata nella mostra così gigante da divenire enciclopedica dell’opera di Mark Rothko presso la Fondation Louis Vuitton. Sempre Parigi, sempre museo privato, sempre grandeur. Ma non sarà mica l’ambiente a concorrere a queste esagerazioni, che per eccesso di primato di opera omnia, rischiano di allontanarsi dal senso di quanto espongono? In una recente, bella intervista ad Artnet, Carolyn Christov-Bakargiev, alla domanda “come vede le pressioni che i direttori dei musei devono affrontare oggi?”, risponde che le pressioni negative sui direttori dei musei sono enormi. La principale è quella dei finanziamenti. I finanziamenti privati vanno sempre più ai musei privati, e questo è problematico. Ha a che fare con il narcisismo. Il desiderio di essere qualcuno. Il selfie. Quindi c’è meno senso di bene collettivo.

Una volta le grandi rassegne artistiche erano in mano ai musei, ora sempre più sono proposte da istituzioni culturali private, che fanno un ottimo lavoro, ma perché questo slittamento cosi radicale? Una volta i privati sostenevano i musei, ora si sostituiscono a essi, e il discorso di vanità che fa la stessa Christov-Bakargiev è sicuramente un argomento ma c’è dell’altro, molto più empirico: il costo sempre più elevato di queste operazioni. Per portarle a termine con successo, sono ormai necessari budget milionari – se non addirittura superiori ai dieci milioni, come per la collezione russa Shchukin da Vuitton nel 2016, prima offerta al Musée d’Orsay. I valori assicurativi delle opere d’arte sono aumentati in proporzione ai valori gonfiati che le opere d’arte ottengono sul mercato e alle aste. L’aumento del costo dei trasporti è un altro fattore, a cui si aggiunge la legittima richiesta di trasporti meno inquinanti del trasporto aereo. Si fa quindi presto a voler creare un evento irripetibile, mai accaduto e che mai accadrà. Presi da quest’ansia d’esclusività assoluta dell’evento, la mostra ha il merito di offrire una visione d’insieme delle opere che contribuirono a una rivoluzione artistica ma rischia di diventare una rassegna e di soffrire di gigantismo, indicizzazione di questo insieme e tirannia dell’accumulo. Si rischia insomma di perdere il senso della natura di quanto si espone. Perché il troppo storpia.


“Arte Povera”, 
a cura di Carolyn Christov-Bakargiev, 
Bourse de Commerce-Pinault Collection, Parigi
fino al 20 gennaio 2025
   

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