Lezioni economiche della rivoluzione russa
Le alternative socialiste all’economia di mercato non funzionano. Scrive il Financial Times
La rivoluzione russa rimane uno dei più grandi esperimenti economici e politici della storia, “e ha portato una guerra civile, l’abolizione della proprietà privata, la creazione dell’economia pianificata e l’eliminazione del mercato”, scrive Sergej Guriev sul Financial Times. Cento anni dopo, la rivoluzione però ci dà tre importanti lezioni economiche. La prima è che l’industrializzazione non si realizza attraverso il terrore, che allo stesso tempo è la condizione indispensabile – come insegna la seconda lezione – affinché l’economia pianificata non porti alla bancarotta. La terza è che la mancanza di competizione crea un sistema di governance rigido e quindi incapace di riformarsi. La prima lezione è quella più scontata. Stalin ha fomentato l’industrializzazione del paese e questo ha anche favorito la vittoria della Russia durante la Seconda guerra mondiale. Ma più che fomentarla attraverso un processo graduale e costruttivo, l’ha imposta con un metodo “brutale ed efficace”. Uno degli effetti dell’economia centralizzata è stato quello di spostare il 30 per cento della forza lavoro dalle campagne alle città in meno di dieci anni, ma queste risorse non mai state riorganizzate in modo efficiente. Dopo la guerra, l’economia sovietica si è ripresa, la Rka è riuscita a lanciare il primo Sputnik nello spazio e l’Urss ha mantenuto il suo testa a testa con gli Stati Uniti sul nucleare, ma il fallimento è stato comunque inesorabile, il livello di crescita e di innovazione non si è mantenuto di alto livello perché non è stata incentivata la competitività su scala nazionale.
La competizione, in ogni ambito e a maggior ragione nel mercato, è necessaria e favorisce l’efficienza. In un’economia di tipo socialista, tutte le imprese inefficienti vengono salvate comunque dallo stato. Con la fine dello stalinismo e del conseguente terrore, il governo non era più in grado di resistere alle pressioni sociali e dovette innalzare lo standard di vita delle persone. Per farlo Mosca è stata costretta a ricorrere a prestiti e petrodollari, così alla fine degli anni Ottanta, il deficit pubblico sovietico era ormai il 30 per cento del pil. Con l’incombere della bancarotta, come mai i leader sovietici non sono stati in grado di riconoscere il problema e di avviare delle riforme radicali? La risposta porta dritti alla terza lezione. La mancanza di competitività politica e l’assenza di dibattito hanno affidato l’Urss a una leadership incapace, priva di competenze e attendista. Non si tratta di una coincidenza, ma della diretta conseguenza del sistema.
Il grande esperimento sovietico ha dimostrato l’inefficienza, l’insostenibilità del modello economico del non mercato e tutte le versioni di socialismo che sono venute dopo insegnano la stessa cosa: in decenni di esperimenti, i comunisti hanno tentato delle vie alternative al mercato. Nessuna ha funzionato. Questo è quello che dobbiamo ricordarci cento anni dopo.
Il Foglio internazionale