Cento anni di comunismo e cento milioni di morti. Una catastrofe per l'umanità
L’Unione sovietica ha rimodellato la natura umana, scatenato il caos intellettuale e lasciato dietro di sé un grande raccolto di dolore. Scrive il Wall Street Journal (6/11)
Cento anni fa i bolscevichi presero il Palazzo d’Inverno a San Pietroburgo dando inizio “a una serie di eventi che avrebbero portato alla morte di milioni di persone e avrebbero inflitto una ferita quasi fatale alla civiltà occidentale”, scrive David Satter sul Wall Street Journal. I rivoluzionari riuscirono a occupare le stazioni, gli uffici postali e i telegrafi mentre la città dormiva e, quando i cittadini si svegliarono, trovarono il loro universo capovolto. I bolscevichi dicevano di voler abolire la proprietà privata, ma il vero obiettivo era spirituale: trasformare l’ideologia marxista-leninista in realtà. Per la prima volta si posero le basi per uno stato esplicitamente ateo e quindi incompatibile con i valori su cui si fondava la civiltà occidentale per la quale stato e società erano sovrastati da un potere superiore.
Il golpe bolscevico ha avuto due conseguenze. Nelle nazioni che si sono lasciate influenzare la rivoluzione ha svuotato la società della morale, ha degradato gli individui e li ha resi degli ingranaggi della macchina statale. I comunisti hanno ucciso, eliminando il valore della vita stessa e i sopravvissuti hanno perso la loro coscienza individuale. Ma i bolscevichi non si sono limitati a influenzare queste nazioni. A occidente, il comunismo ha intaccato la società sovvertendo i suoi valori e mettendoli in discussione. Ha creato una confusione politica che perdura fino ai nostri giorni.
Durante un discorso del 1920 al Komsomol, Lenin ha detto che i comunisti subordinavano la morale alla lotta di classe. Tutto ciò che fosse in grado di distruggere “la vecchia società sfruttatrice e che aiutasse a costruire una nuova società comunista” era considerato positivo. Questo approccio ha separato il peccato dalla responsabilità. Martyn Latsis, ufficiale della Cheka, la polizia segreta, nel 1918 scrisse come dovesse essere condotto un interrogatorio: “La nostra guerra non è contro gli individui. Noi stiamo sterminando la borghesia in quanto classe sociale. Non cerchiamo la prova che l’atto di cui qualcuno è stato accusato sia stato effettivamente commesso. Come prima cosa bisogna chiedere a quale classe sociale appartiene un individuo. Questo determinerà il suo destino”.
“Queste convinzioni furono alla base di decenni di omicidi”, scrive Satter, “non meno di venti milioni di cittadini sovietici vennero uccisi dalle politiche repressive. Questo numero non include i milioni di vite spezzate dalle guerre, dalle epidemie e dalla fame generate in modo prevedibile dai principi del bolscevismo”. Si contano 200.000 vittime del terrore rosso tra il 1918 e il 1920, 11 milioni di persone decedute o per la fame o per la dekulakizzazione, 700.000 esecuzioni tra il 1937 e il 1938, almeno 2.700.000 prigionieri morti nei gulag. Alla lista bisognerebbe aggiungere un milione di detenuti, che durante la Seconda guerra mondiale vennero liberati dai campi di lavoro e impiegati nell’Armata rossa andando incontro a morte certa, partigiani e civili uccisi in Ucraina e nelle repubbliche baltiche. Se a questo novero aggiungiamo anche le morti causate dai regimi supportati dall’Unione sovietica – Corea del nord, Cina, Cuba, Vietnam, Cambogia e altre nazioni dell’Europa orientale – il numero totale delle vittime sfiora i 100.000.000 e “questo basta per fare del comunismo la più grande catastrofe dell’umanità”.
Il risultato di queste morti doveva essere la creazione di un uomo nuovo, pronto ad agire nel nome della causa sovietica. La battaglia di Stalingrado è il paradigma di tutto ciò. Quando le unità di blocco dell’Armata rossa spararono sui soldati che tentavano la fuga e sui civili che cercavano rifugio dalla parte tedesca, ai bambini che andavano a riempire le bottiglie dei soldati del Reich con l’acqua del Volga, il generale Vasily Chuikov, comandante a Stalingrado, cercava di giustificare queste azioni affermando: “Un cittadino sovietico non può concepire la propria vita al di fuori delle necessità della patria”.
Questi sentimenti permangono ancora oggi. Quando nel 2008 la Duma ammise che la carestia del 1932 fu causata dalle requisizioni di grano ordinate dallo stato per finanziare l’industrializzazione, aggiunse che i giganti industriali dell’Urss, il mulino di Magnitogorsk e la diga del fiume Dnepr, sarebbero stati “eterni monumenti” per le vittime.
L’Unione sovietica ha rimodellato la natura umana, ma ha anche diffuso il caos intellettuale. Il termine “politicamente corretto” trae le sue origini dall’assunto secondo il quale il socialismo, un sistema di proprietà collettiva, in sé era virtuoso, senza avere la necessità di valutare il suo operato alla luce di criteri morali trascendenti.
Quando i bolscevichi si presero la Russia, alcuni intellettuali occidentali, influenzati dalla stessa mancanza di etica, chiusero gli occhi di fronte alle atrocità del comunismo. Quando gli omicidi divennero troppo ovvi per essere negati, “i simpatizzanti iniziarono a giustificare le crudeltà dicendo che i sovietici facevano tutto con nobili intenzioni”.
Ma a occidente prevaleva una profonda indifferenza. La Russia veniva utilizzata come pretesto per risolvere le liti politiche. Come scrive lo storico Robert Conquest, il ragionamento era semplice: “Il capitalismo era ingiusto, il socialismo avrebbe potuto mettere fine all’ingiustizia, quindi andava sostenuto senza condizioni”.
L’Unione sovietica è roba del passato ma è necessario ricordare quanto scrisse il filosofo russo Nikolaj Berdyaev: “La nostra gioventù istruita non riesce ad ammette il significato intrinseco e indipendente delle parole scolarizzazione, filosofia, erudizione, illuminismo, università, lo subordinano agli interessi della politica, dei partiti, dei movimenti e dei circoli”.
Se c’è una lezione che possiamo trarre dal secolo comunista è che un potere indipendente dai principi universali della morale non può avere ripensamenti, dal momento che “è la convinzione da cui dipende tutta la civilizzazione”.
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