Per avere successo non c'è bisogno di studiare. E' solo una corsa alle credenziali
Uno studio americano spiega che il mercato del lavoro non paga per l’inutilità delle materie che immagazziniamo, scrive l’Atlantic
"Sono a scuola da più di quarant’anni”. Esordisce così, sull’edizione dell’Atlantic in uscita in gennaio, una controversa e controintuitiva analisi dell’utilità dell’istruzione universitaria dell’accademico Bryan Caplan. “Prima, sono andato all’asilo nido, poi alla materna, alle elementari, alle medie e infine al liceo. Mi sono laureato a Berkeley e ho preso un dottorato a Princeton. Il passo successivo è stato quello che potrebbe definirsi il mio primo ‘vero’ lavoro: come professore di Economia alla George Mason University. Grazie a questo incarico, ho ora un lavoro da sogni per tutta la vita. Personalmente, non avrei nessun motivo per inveire contro il nostro sistema di istruzione superiore. E tuttavia un’esperienza lunga una vita, più un quarto di secolo di letture e riflessioni, mi ha convinto che [l’istruzione universitaria] sia una gran perdita di tempo, e di denaro. In che modo, qualcuno potrebbe domandare, si può definire l’istruzione superiore inutile, in un’epoca in cui la rendita finanziaria che ne deriva è più grande che mai? I guadagni marginali dei laureati sono schizzati al 73 per cento: ossia, chi possiede una laurea, in media, guadagna il 73 per cento in più di quelli che hanno solo un diploma di scuola superiore, rispetto al 50 per cento della fine degli anni Settanta. La questione cruciale, tuttavia, non è tanto se l’università paghi, ma perché. La semplice, popolare risposta è che le università insegnano agli studenti competenze professionali utili.
Ma un’affermazione del genere ci trova piuttosto perplessi. Prima di tutto: a partire dalla scuola materna, gli studenti passano migliaia di ore a studiare materie irrilevanti per il mercato del lavoro moderno. Perché le classi di inglese si concentrano sulla letteratura e la poesia, anziché sui sistemi economici e sulla scrittura tecnica? Come mai le classi di matematica si occupano di verità che nessuno studente davvero capisce? Quand’è che lo studente medio userà le sue nozioni di storia, trigonometria, arte, musica, fisica, latino? Il clown della classe che sbuffa dicendo ‘cos’ha a che fare tutto ciò con la vita reale?’ non ha effettivamente tutti i torti. La scollatura tra i curricula e il mercato del lavoro ha una spiegazione banale: gli educatori insegnano quel che sanno, e molti di essi hanno una scarsa conoscenza del mercato del lavoro moderno, tanta quanta ne ho io. Questo non fa che complicare il disegno. Se le università ambiscono a incrementare il futuro reddito degli studenti insegnando loro competenze professionali, come mai ne affidano l’istruzione a persone così sconnesse dal mondo reale? Perché, nonostante il divario tra quel che gli studenti imparano e quel che i lavoratori fanno, il successo accademico è un forte segnale di produttività lavorativa.
Supponete che un ufficio legale cerchi un collaboratore estivo. Uno studente di Legge con un dottorato in Filosofia preso a Stanford fa domanda. Che cosa ne deducete? Il candidato è probabilmente brillante, diligente e disposto a tollerare una gran quantità di noia. Se state cercando questo tipo di dipendente – e chi non lo cerca? – gli farete un’offerta, sapendo bene che nulla di ciò che il filosofo ha imparato a Stanford è rilevante per questo lavoro. Il mercato del lavoro non vi paga per l’inutilità delle materie che conoscete: vi paga per le vostre caratteristiche personali preesistenti che segnalate al mercato attraverso la conoscenza di quelle materie. Questa non è un’idea di nicchia. Michael Spence, Kenneth Arrow, e Joseph Stiglitz, – tutti premi Nobel per l’economia – hanno contribuito in maniera fondamentale alla teoria della segnalazione nell’ambito dell’istruzione.
Come società, continuiamo a spingere orde di studenti sempre più ampie a livelli sempre più alti dell’istruzione. Il risultato non è che abbiamo lavori migliori o migliori livelli di competenze, ma semplicemente una corsa alle armi delle credenziali. Affinché non mi mal interpretiate: voglio affermare con vigore che l’istruzione conferisce alcune competenze utili sul mercato del lavoro, come l’alfabetismo e la capacità di calcolo. Tuttavia, credo che la segnalazione contribuisca ad almeno la metà del ritorno finanziario di una laurea, e forse anche di più. Cosa significa questo per un singolo studente? Consiglierei a un diciottenne con una bella testa di non andare all’università perché non vi imparerà nulla che abbia davvero un valore? Assolutamente no. Studiare cose irrilevanti per i successivi quattro anni impressionerà i datori di lavoro aumentandone il potenziale reddito. Se provasse a ottenere il suo primo lavoro da colletto bianco, insistendo ‘ho quel che serve per laurearmi, ho semplicemente deciso di non farlo’, i datori di lavoro non gli crederebbero.
La mentalità dell’università per tutti ha fomentato una negligenza per il suo realistico sostituto: i corsi di formazione professionale. Consiste di forme diverse – gli insegnamenti frontali, gli apprendistato e altri sistemi di formazione sul lavoro, e diretta esperienza professionale – ma hanno molto in comune. Tutti i corsi di formazione professionale insegnano specifiche competenze e si basano sull’apprendere facendo, piuttosto che sull’apprendere ascoltando. La ricerca, anche se in modo un po’ sparso, suggerisce che i corsi di formazione professionale aumentano i salari, riducono la disoccupazione e accrescono i tassi di completamento della scuola superiore. L’istruzione è talmente organica alla vita moderna che la diamo per scontata. I giovani devono attraversare interminabili percorsi accademici per assicurarsi un posto nel mondo adulto. Se tutti avessero una laurea, non si avrebbero più lavori qualificati per tutti, bensì un’inflazione delle credenziali professionali (ovvero un’erosione del valore del titolo accademico, ndr).
Cercare di aumentare il successo attraverso l’istruzione aumenta l’istruzione, non il successo”.
Il Foglio internazionale