Il dissenso è vitale in democrazia
Sono gli stati autoritari che censurano, scrive Reuters
“I cittadini degli stati autoritari sanno cosa possono o non possono leggere, pubblicare, guardare o ascoltare” esordisce su Reuters l’opinionista John Lloyd. “In posti come la Cina, la Russia, l’Iran, la Turchia e l’Egitto, sono concesse le discussioni private e la pubblicazione di piccoli progetti editoriali. Le autorità concedono siffatte libertà perché sanno di non potersi permettere di alienare le persone giovani, colte e in gamba, anche se i confini di queste libertà sono stati messi in chiaro. Superato il limite, comincia una zona di proibizione punibile con qualsivoglia strumento considerato idoneo, dall’ergastolo alla tortura. (…) Cosa succede, però, se non c’è alcuna zona di proibizione? Cosa succede nelle liberal-democrazie, dove la posizione ufficiale dei governi e della legge è che esiste la libertà di espressione, di stampa e di protesta? Quel che succede è che la censura passa dalle mani dei governi a quelle della società civile, dei gruppi volontari, delle istituzioni e degli individui che considerano alcune forme di espressione o stampa come intollerabili, e perciò vogliono proibirle, o rimuoverle del tutto. Queste situazioni si hanno nei momenti di scandalo collettivo che culminano con la richiesta alle autorità di intervenire contro chi esprime opinioni considerate censurabili.
Questo significa fare l’opposto di quello che fanno gli stati autoritari. Significa rimuovere la censura, piuttosto che praticarla. Questo atteggiamento ha dato luogo a quello che nel Regno Unito è noto come movimento ‘no-platform’ (quindi ‘no palco’, ndt) che vuole ostracizzare dai campus universitari gli speaker che questo o quest’altro gruppo considera dannoso per il pubblico. ‘Offesa’ e ‘ferita’ sono i due concetti principali sventolati in questa battaglia. Spesso vengono utilizzati da coloro che si vedono come liberali, e persino dalle università, che insistono sull’importanza della loro libertà intellettuale”. L’analisi di Lloyd dunque approda all’annosa questione dei monumenti americani ai coloni delle origini, notando come ci sia “una scuola di pensiero secondo cui i monumenti dovrebbero rientrare sotto l’ombrello della libertà d’espressione. Tuttavia ce n’è un’altra, migliore, secondo cui i tributi, sopratutto la bandiera confederata, sfociano nel razzismo. Un tipo di risposta è la rimozione del monumento, l’altra è di mettere (sul monumento, ndt) una targhetta dettagliata spiegando per che cosa le figure monumentalizzate avessero lottato. La libertà d’espressione non è un pilastro fondamentale della democrazia per caso. Nasce dall’idea, sviluppatasi in maniera progressivamente più forte negli ultimi cinque secoli, che l’opposizione mostrata nei confronti del potere, da parte di opinioni contrarie a quella ‘ufficiale’, e le rivelazioni che la ricerca investigativa possono dare al pubblico sono vitali per la salute di una nazione”.
(Traduzione a cura di Tommaso Alberini)
Il Foglio internazionale