Caravaggio, Giuditta che taglia la testa a Oloferne, 1602 ca. Olio su tela, 145 × 195 cm. Roma, Palazzo Barberini, Galleria nazionale d'arte antica

E ora a chi tocca, a Caravaggio?

I puritani censori di #MeToo e il dibattito sull’arte e il sesso, scrive il Guardian (3/2)

“Dopo il gran tumulto nell’industria del cinema, era inevitabile che a seguire fosse il mondo dell’arte, col suo coacervo di personaggi discutibili”. Inizia così, sul Guardian, un’invettiva contro lo squadrismo del pol. corr. nell’arte di Svetlana Mintcheva, direttrice operativa della Coalizione nazionale contro la censura. “Dopo le accuse di mala condotta sessuale, la National Gallery of Art di Washington ha indefinitamente posposto una mostra di Chuck Close, uno dei più celebrati ritrattisti del paese, mentre l’Università di Seattle ha coperto il suo ‘Self Portrait 2000’ per timore ‘delle potenziali reazioni di studenti, professori e dipendenti’. Il popolo sta marciando sulla Bastiglia del privilegio maschile. Un conto, però, è chiedere che gli uomini che hanno commesso atti deplorevoli vengano puniti, ben altra cosa è condannare la loro arte all’oblio. Rimuovere l’arte perché macchiata dei peccati del suo esecutore pone uno standard impossibile per le istituzioni artistiche, uno standard che richiederebbe loro di agire in qualità di ufficiali dell’ortodossia morale.

  

Dovremmo rinunciare ad ammirare i chiaroscuri di Caravaggio, coi suoi amabili e sensuali giovanotti (il modello preferito dell’artista è apocrifamente noto come ‘il suo ragazzo o servo che dormiva con lui’. A questi peccati va poi aggiunto, probabilmente, l’omicidio). Niente più Picasso, che in vita mise in pratica il suo famigerato motto secondo cui ‘le donne sono macchine di dolore’; addio all’espressionismo truculento di Egon Schiele, che fu accusato di aver abusato sessualmente delle sue modelle adolescenti; niente più Eric Gill, che fece le sculture per le stazioni della via crucis della Cattedrale di Westminster, sì, ma violentava le figlie; e tanti altri ancora.

  

I musei avranno bisogno di magazzini più grandi delle gallerie. Con l’espandersi di questa narrativa rivoluzionaria, i muri spogli verrebbero riempiti dalle opere di chi non ha mai trovato il proprio spazio in istituzioni artistiche influenti: le donne (a meno che, come l’astro nascente d’America Dana Schutz, non abbiano osato toccare un argomento sensibile come la razza), le persone di colore (a meno che non si tratti di Raghubir Singh, l’acclamato fotografo accusato di stupro) o artisti transessuali o gay, purché non siano Caravaggio. Gli individui devono affrontare le conseguenze delle proprie azioni. Ma la loro arte, se trascende lo squallore dei loro misfatti – e così dev’essere, vista l’importanza artistica di tante opere – dovrebbe rimanere accessibile. In quest’epoca politicamente polarizzata, dobbiamo valutare le istituzioni artistiche come luoghi in cui possiamo riflettere sulla complessità umana – incluso il fatto che artisti di siffatto talento creativo possano essere persone tanto orribili – piuttosto che considerarle come chiese, obbligate a emettere sentenze morali su chi meriti la salvezza e chi debba bruciare all’inferno”.

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