Simone Veil, signora di Francia e d'Europa
Un anno dopo la morte, Veil è entrata nel Pantheon. L’elogio di Macron: “La vostra opera è stata grande. Possano le vostre battaglie scorrere nelle nostre vene”
Domenica 1° luglio, un anno dopo la sua morte, Simone Veil è diventata la quinta donna a entrare nel Pantheon, il luogo dove la Francia dà sepoltura ai suoi grandi. Il presidente Emmanuel Macron l’ha ricordata con un accorato discorso i cui punti essenziali sono stati ripresi da molti giornali francesi. Ve ne proponiamo ampi stralci.
Il 5 giugno dello scorso anno, al termine dell’omaggio che le era stato reso presso la Corte degli Invalidi, avevo annunciato che Simone Veil avrebbe riposato al Pantheon accanto al suo sposo, ma la decisione non fu solo la mia. E non fu nemmeno della sua famiglia, che comunque accettò. Fu una decisione di tutti i francesi. Perché era intensamente, tacitamente, ciò che tutti i francesi e le francesi desideravano. Perché la Francia ama Simone Veil. L’ama nelle sue battaglie, sempre giuste, sempre necessarie, sempre animate dalla preoccupazione per i più fragili, e per le quali si impegnava con una forza di carattere poco comune.
La Francia l’ama ancora di più perché ha compreso da dove le veniva questa forza messa al servizio di un’umanità più degna.
Solo tardivamente, quando Simone Veil aveva superato i cinquant’anni, la Francia ha scoperto che le radici del suo impegno affondavano nell’oscurità più assoluta, innominabile, dei campi della morte. E’ là che lei trovò in se stessa, per sopravvivere, questa parte profonda, segreta, inalienabile che si chiama dignità. E’ là che, malgrado i dolori e i lutti, acquisì la certezza che alla fine l’umanità vince sulla barbarie. Tutta la sua vita fu l’illustrazione di questa invincibile speranza. Noi abbiamo voluto che Simone Veil entrasse al Pantheon senza attendere che passino le generazioni, come abbiamo ormai l’abitudine di fare, perché le sue battaglie, la sua dignità, la sua speranza restino una bussola nei tempi difficili che attraversiamo.
Poiché ha conosciuto il peggio del Ventesimo secolo e si è perciò battuta per renderlo migliore, Simone Veil riposerà con suo marito nella Sesta cripta. Lì raggiungerà quattro grandi personaggi della nostra storia: René Cassin, Jean Moulin, Jean Monnet e André Malraux. Furono, come lei, maestri di speranza. Come loro Simone Veil si è battuta contro i pregiudizi, l’isolamento, contro i demoni della rassegnazione o dell’indifferenza senza nulla cedere, perché sapeva ciò che era la Francia.
Come loro, sfidò l’ostilità, agì come un precursore, abbracciò delle cause che si credevano perdute per restare fedele all’idea che aveva della Repubblica e alla speranza che riponeva in essa. (…)
Come René Cassin, Simone Veil si è battuta per la giustizia. Nel 1948, Cassin fece ratificare dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Simone Veil sapeva tuttavia che in questa nobile battaglia per i diritti umani, continuava ostinatamente a essere dimenticata la metà dell’umanità: le donne. Aveva visto la loro sottomissione e le loro umiliazioni, lei stessa aveva subito discriminazioni che riteneva assurde, sorpassate. Allora si batté affinché giustizia fosse fatta per le donne, tutte le donne. Giustizia per le donne detenute in condizioni indegne, che si sforzò mentre era magistrato di migliorare, giustizia per le donne, la loro indipendenza finanziaria, la loro autonomia coniugale, la loro eguaglianza nell’autorità genitoriale. Giustizia perché le loro qualità e i loro talenti fossero riconosciuti in tutti gli ambiti.
Per le donne martoriate nel loro corpo, nell’anima, per le donne che procuravano gli aborti, per le donne che dovevano nascondere la loro tristezza o la vergogna, e che lei strappò alla sofferenza sostenendo con una forza ammirabile il progetto di legge sull’interruzione volontaria di gravidanza, dietro richiesta del Presidente Valery Giscard d’Estaing e con il sostegno del primo ministro Jacques Chirac.
Giustizia per le donne inconsapevoli dei loro diritti e del loro posto nella società, per le donne emarginate a causa delle leggi, degli stereotipi, delle convenzioni. Giustizia per tutte le donne, che, ovunque nel mondo, sono martirizzate, violentate, vendute, mutilate. (…)
E che in questo giorno, i nostri pensieri vadano in particolare a una di loro, una donna risoluta, forte, dolce che, nelle condizioni indicibili dei campi della morte sostenne le sue due figlie con tutta la forza del suo amore. Avrebbe desiderato una vita di gioia, ma per lunghi mesi il suo destino tragico volle che lo spettacolo della loro sofferenza si aggiungesse alla propria sofferenza, sino allo sfinimento finale, fino alla morte. Saluto qui la memoria della madre di Simone Veil, Madame Yvonne Jacob, nata Steimetz, morta a Bergen-Belsen nel marzo 1945, di cui l’esempio ispirò la lotta di Simone Veil per le donne.
Come Jean Monnet, Simone Veil si è battuta per la pace e, dunque, per l’Europa. Lei che aveva vissuto l’indicibile esperienza della brutalità e dell’arbitrarietà sapeva che solo il dialogo e la concordia tra i popoli avrebbero impedito che Auschwitz potesse rinascere dalle ceneri fredde delle sue vittime.
Si fece combattente per la pace, si fece combattente per l’Europa. Voleva l’Europa per realismo, non per idealismo; per esperienza, non per ideologia; per lucidità, non per ingenuità.
Non era tenera con l’insignificanza dell’irenismo e le complicazioni tecnocratiche che, talvolta, divenivano l’immagine di questa Europa, poiché apparteneva a quella generazione per la quale la nostra Europa non era né un’eredità, né un obbligo, ma la conquista di ogni giorno. Come parlamentare, come presidente del Parlamento europeo, come cittadina impegnata, non cessò di ravvivarne la fiamma originaria e d’incarnarne lo spirito fondatore. (…)
Nulla sarebbe peggio che rinunciare alla speranza che ha fatto nascere l’Europa dalle rovine nelle quali era stata sepolta e sotto le quali sarebbe potuta morire. Noi siamo oggi i depositari di questa sfida alle vecchie nazioni che l’Europa non ha cessato di tenere viva. Questa sfida è la nostra, quella della gioventù di Francia e dell’Europa, ora che venti malevoli di nuovo si levano. E’ il nostro orizzonte più bello.
Come André Malraux, Simone Veil si è battuta per la civiltà. Nata prima della guerra, in una civiltà che si credeva ancora immortale, ne visse il rapido e crudele tracollo. Vide i punti di riferimento morali scomparire. Nei campi vide delle SS martirizzare dei bambini di giorno, per ritrovare la sera i propri familiari venuti a raggiungerli attorno alla tavola.
Aveva appreso nella propria carne che Auschwitz aveva sconvolto in modo durevole l’idea stessa di civiltà. Ma sapeva anche che era possibile ricostruire una civiltà nuova. Appassionata di arte e letteratura, continuò a credere che la cultura fa crescere l’uomo e lo illumina sul suo destino.
Riposerà ad alcuni metri dal suo caro Jean Racine – che suo padre André Jacob le aveva fatto amare – che è sepolto nella chiesa di Saint-Etienne-du-Mont e del quale Simone Veil occupò la poltrona all’Académie française.
Operando a favore dell’educazione, della riabilitazione dei prigionieri o come ministro per la protezione dei più fragili, sapeva che le civiltà sono tessute con questi legami organici, con questi mille fili invisibili. Impegnata a favore dell’amicizia tra i popoli europei, lo fu anche nel dialogo tra israeliani e palestinesi, perché l’umanità non si arresta davanti alle nostre frontiere. Credeva in questo destino comune che chiamiamo nazione, e in questa avventura esaltante che chiamiamo civiltà, sapeva che ogni giorno che passa costituisce una nuova battaglia contro la barbarie.
Come Jean Moulin, Simone Veil si è battuta perché la Francia restasse fedele a se stessa. Tradita da uno stato francese che era sceso a patti con l’occupante nazista, lei avrebbe potuto addossare al proprio paese il dolore delle sue prove e dei suoi lutti, ma ciò non accadde. E quando decise di testimoniare della sua deportazione, fu innanzitutto per rendere omaggio ai Giusti di Francia. Si erse contro coloro che innalzavano il ritratto di una Francia vinta dai deliri antisemiti di Hitler, Petain, Laval, per ricordare il coraggio incredibile e spontaneo di quelle famiglie francesi che, a rischio della propria vita, avevano nascosto bambini ebrei, salvandoli dalla persecuzione e da una morte atroce. Lei ricordava il tempo in cui dei francesi fornivano ai loro concittadini ebrei documenti falsi e certificati di lavoro. Era il tempo in cui l’arcivescovo di Tolosa, Monsignor Saliege, faceva appello perché le chiese fornissero asilo, era il tempo in cui dei sacerdoti celebravano segretamente Pourim nelle loro chiese. Era il tempo in cui delle solidarietà sotterranee tenevano viva la fraternità francese. (…)
Mai Simone Veil accettò decorazioni per essere stata deportata, e ancor meno accettò che emergesse una rivalità tra le memorie. La realtà delle camere a gas e dei forni crematori dei campi di sterminio, strumenti del crimine contro l’umanità, non attenua in nulla l’eroismo dei resistenti torturati, fucilati, deportati. Ma esiste una verità storica e la verità del martirio ebraico è oggi parte integrante della storia di Francia, come ne fa parte l’epopea della resistenza.
Simone Veil riposerà accanto a Jean Moulin, l’eroe della Resistenza, torturato da Klaus Barbie e che non si lasciò sfuggire nessun segreto durante la tortura più abietta. Lei, Simone Veil, che martirizzata dalle SS non rinunciò mai alla sua dignità. Sono per noi due esempi di umanità profonda: lui eroico nel suo sacrificio, lei ammirevole per il suo coraggio e per la sua testimonianza. Lei che sul braccio sinistro portava le stigmate del suo dolore, quel numero di deportata a Birkenau del quale un giorno un francese le chiese se si trattava del numero del guardaroba. Il numero 78651 era il viatico della sua dignità invulnerabile e intatta. Sarà inciso sul suo sarcofago, così come era stato tatuato sulla sua pelle di adolescente. Perché, con Simone Veil, alla fine è la memoria dei deportati per motivi di razza, come diceva lei stessa, dei 78.500 ebrei e tzigani deportati dalla Francia, che entra e vivrà in questo luogo.
Domani raggiungerà i quattro cavalieri francesi che dormono in questa tomba. Simone Veil entrando potrà guardarli con fierezza con quel suo sguardo freddo, sempre inquieto. Potrà dir loro: “Ho fatto la mia parte”.
Simona Veil chiama anche noi a fare la nostra parte. Un altro cavaliere li avrà raggiunti, perché non era pensabile dividere ciò che la vita aveva così fortemente unito (…). Non era pensabile che Simone potesse riposare senza Antoine. Questa compagnia le sarebbe mancata. Antoine, l’alto funzionario che amava la vita e che portò alla giovane sopravvissuta l’eleganza e lo humor che le permisero di rivivere. Antoine che sognava di fare politica e al termine dell’Ena aveva cominciato come liberale europeo. Antoine che ebbe l’intelligenza di comprendere che sua moglie, lei, portava alla politica non il semplice desiderio di cambiare le cose, ma l’aspra volontà di combattere per l’essenziale. Egli mise allora il suo talento, il suo amore al servizio delle battaglie condotte da Simone, che egli sostenne anche nelle ore difficili, quando i suoi avversari utilizzavano l’ingiuria immonda e la minaccia fisica. Il loro dialogo non cessò mai, punteggiato da risate e talvolta malinconia (…). Il Pantheon ormai sarà un mormorio delle loro conversazioni.
La vostra opera, Signora, fu grande, perché essa si è nutrita dei vostri lutti e delle vostre ferite, delle vostre fedeltà e delle vostre intransigenze, ma anche perché voi l’avete interamente dedicata alla Francia e alla Repubblica. Tutto ciò che voi avete fatto, l’avete fatto perché la Repubblica vi chiamava, vi ci conduceva, vi incoraggiava. Voi avete creduto nella Repubblica e la Repubblica ha creduto in voi. La grandezza dell’una ha fatto la grandezza dell’altra. E’ perché con tutte le vostre forze voi l’avete onorata che oggi essa vi onora.
La vostra opera tuttavia non è ancora giunta al termine. Essa entra qui nella storia e nella posterità. Possa la vostra lotta continuare a scorrere nelle nostre vene, ispirare la nostra gioventù e unire il popolo di Francia. Possiamo noi sempre mostrarci degni come cittadini, come popolo dei rischi che voi avete preso e delle strade che avete tracciato, perché è in questi rischi e su queste strade, Signora, che la Francia è davvero la Francia.
Al tramonto della vostra vita, voi avete desiderato che un kaddich fosse recitato sulla vostra tomba, e il vostro desiderio fu esaudito dalla vostra famiglia il 5 luglio 2017, al cimitero di Montparnasse. Oggi, la Francia vi offre un altro canto, quello del quale le prigioniere di Ravensbrük avevano elaborato le prime parole su centinaia di pezzi di carta; e che esse cantarono il 14 luglio 1944 davanti alle SS stupefatte. Questo canto di cui il mondo ha risuonato quando la barbarie ha mostrato di nuovo presso di noi il suo volto disgustoso. Questo canto è quello della Repubblica, E’ quello della Francia che noi amiamo E che voi avete fatto più grande, più forte. Che sia oggi, Signora, il canto della nostra gratitudine e della riconoscenza della nazione che voi avete tanto servito e che vi ha tanto amata. Questo canto è la Marsigliese. Viva la Repubblica, viva la Francia.