Un Foglio internazionale

La grande crisi dei diritti umani

Robert Badinter, che abolì la pena di morte in Francia, su una triste evoluzione. "Ho conosciuto da adolescente l'occupazione tedesca. E credevo fosse impossibile, durante la mia vita, sentir gridare nuovamente nelle strade di Parigi 'Morte agli ebrei'"

Tornando sui recenti dibattiti che hanno diviso la società (abbattimento delle statue, cambiamento del titolo di un romanzo di Agatha Christie, etc.), l’ex ministro della Giustizia e padre dell’abolizione della pena di morte in Francia invita i suoi concittadini a non abdicare all’universalismo. “Deve restare il nostro principio”, afferma. Alla luce delle polemiche scoppiate negli ultimi mesi a proposito dei metodi per combattere il razzismo e il sessismo, Robert Badinter manifesta la sua inquietudine vedendo alcuni militanti cedere alle sirene del differenzialismo.


  

La Croix – Lei si è battuto molto per i diritti dell’uomo. Oggi, una serie di dibattiti oppongono militanti razzisti e femministe. Due linee si affrontano: una universalista e l’altra “differenzialista”. Alcune donne vogliono che si tengano delle riunioni non-miste e alcune persone nere chiedono di essere curate soltanto da medici neri. Cosa pensa di tutto questo?

Robert Badinter – È grave. I diritti dell’uomo stanno attraversando una grave crisi. L’opposizione tra universalismo e differenzialismo – o comunitarismo – è una delle questioni chiave del presente. Ci troviamo di fronte a una scelta fondamentale. E a mio avviso è imperativo fare la scelta dell’universalismo! Non si può dire che da un lato ci sono i diritti delle donne e dall’altro quelli degli uomini, né affermare che neri e bianchi non avrebbero gli stessi diritti! Se continuiamo su questa strada non avremo più una nazione, bensì delle comunità antagoniste, ognuna delle quali rivendicherà i propri diritti specifici. Perché il “differenzialismo” ci porterà proprio a questo: dei diritti dipendenti dal sesso, dalla nazione, dalla religione, dal colore della pelle… Da quel momento in poi, non potremo più proclamare: “Tutti gli uomini (ossia tutti gli esseri umani) nascono liberi e uguali”. Ma è esattamente questo il primo principio dei diritti dell’uomo.

 

Cosa risponde a quelli che ritengono che l’universalismo resti troppo spesso formale e non impedisca la perpetuazione delle discriminazioni?

Esistono ancora delle discriminazioni, spesso odiose. E devono imperativamente essere combattute. Ma non per questo dobbiamo abdicare all’universalismo. Deve restare il nostro principio, la nostra visione. Perché se ogni comunità si considera in funzione delle proprie differenze, questa visione sfocerà in una società frammentata, in brandelli. E, più grave ancora, perderemo la nozione di uguaglianza e di fraternità, ossia la presa in considerazione della nostra umanità comune, piuttosto che delle nostre differenze.

 

Dobbiamo restare universalisti. Perché se ogni comunità si considera in funzione delle proprie differenze, questa visione sfocerà in una società frammentata, in brandelli

 

Lei è favorevole al fatto che si cambi il titolo del libro “Dix petits nègres” di Agatha Christie e che si modifichi il finale della “Carmen” per lottare contro le violenze nei confronti delle donne?

È ridicolo! Bisogna considerare l’opera con lo sguardo dell’autore, non con il nostro. Questa volontà di riscrivere le opere rischia di portarci molto lontano. Se si modifica la “Carmen” perché non riscrivere anche “Otello”, un generale nero che uccide sua moglie, la bionda Desdemona… Non c’è fine. La libertà d’espressione e la libertà di pensiero sono delle libertà essenziali. Fino a dove ci si spingerà? Verranno stilate delle liste di libri proibiti come ai tempi del nazismo?

 

Anche l’abbattimento delle statue ha provocato delle polemiche. Cosa risponde a quelli che se la prendono con la figura di Colbert, ministro visionario ma anche iniziatore del Codice nero?

Anche in questo caso è un’assurdità. Il Codice nero è stato più una volontà di regolamentare tutto nella monarchia assoluta che l’espressione di un razzismo particolare di Colbert e dei giuristi che lo attorniavano. All’epoca, nulla codificava lo schiavismo che regnava nei territori d’oltremare. Questo vuoto giuridico era insopportabile per i fautori del colbertismo. Aggiungo, per quanto riguarda il Codice nero, che nessuno ha da ridire sull’articolo primo di questo codice che chiede agli ufficiali in servizio nei territori d’oltremare di “cacciare dalle nostre isole tutti gli ebrei che vi hanno stabilito la loro residenza”.

 

Quarant’anni fa, lei fece abolire la pena di morte, nonostante la maggioranza dei francesi fosse favorevole al suo mantenimento. Oggi, non fa più dibattito. Qual è il suo pensiero su questa mutazione profonda delle mentalità?

Pensavo che ci sarebbe voluta una generazione affinché una tale riforma fosse accettata. Del resto, è il motivo per cui per vent’anni mi sono sistematicamente rifiutato di riparlare di pena di morte. Non volevo riaprire il dibattito. Ed è accaduto in Francia ciò che era già accaduto altrove – tengo a ricordare che eravamo l’ultimo paese dell’Europa occidentale a conservare la pena di morte: la popolazione si è resa conto che la curva degli assassinii non aumentava, anche senza ghigliottina.

 

Ormai è stato dimenticato, ma all’inizio degli anni Ottanta lei è stato minacciato, insultato e schernito come “l’avvocato dei criminali”. All’epoca, dove ha tratto l’energia per resistere?

Tutto era cominciato molto prima. Dai tempi dell’affaire Patrick Henry (criminale che sequestrò e uccise il piccolo Philippe Bertrand, 7 anni, ndr), nel 1977, sono stato oggetto di disprezzo da parte di molti, a eccezione, ben inteso, dei sostenitori dell’abolizione. Un giorno è stata anche piazzata una bomba davanti alla mia porta di casa. Ma bisognava perseverare, naturalmente, ricordare che la vita è un valore sacro. Si possono del resto ritrovare le fondamenta dell’abolizione nella Bibbia. Dopo aver ucciso suo fratello Abele, Caino teme di essere ucciso a sua volta e l’Eterno gli dice in sostanza: “Ti conservo la vita”. Ma non condona il suo crimine. Bisogna sanzionare il crimine, ma rispettare la vita dell’assassino. È tutto detto: il primo dei diritti dell’uomo è il diritto alla vita.

 

Lei pensa che l’abolizione universale della pena di morte, per la quale ha costantemente militato, sia raggiungibile?

I progressi sono immensi. Nel 1981, la Francia era il 35esimo stato nel mondo ad adottare l’abolizione. Oggi, sui 197 stati riconosciuti dalle Nazioni unite, più di un centinaio l’hanno abolita de jure e una trentina l’hanno abolita “de facto”, nel senso che non viene più eseguita da diversi anni… L’abolizione è ampiamente maggioritaria.

 

Secondo lei, bisognava rimpatriare i nostri connazionali partiti a fare il jihad in Siria per evitare loro la pena capitale in Iraq?

È più coerente giudicare sul luogo dei crimini piuttosto che farlo a 1.000 chilometri di distanza. Allo stesso tempo, il rifiuto della pena capitale deve restare un’esigenza assoluta. In questo caso specifico, credo che Parigi abbia ottenuto delle garanzie per quanto riguarda la vita dei suoi cittadini. Ma non è naturalmente uscito sulla pubblica piazza…

 

Come guardasigilli, lei ha fatto molte cose per migliorare la condizione nelle carceri, rammaricandosi di non aver fatto ancora di più. Come spiega lo stato attuale delle prigioni francesi?

È uno dei miei grandi rimpianti: non essere riuscito a trasformare la prigione, per mancanza di mezzi. In seguito, ho riflettuto molto a questo proposito. Io e Michelle Perrot (storica e professoressa emerita di storia contemporanea all’Università Paris-Descartes, ndr) abbiamo tenuto un seminario presso l’École des haute études en sciences sociales sul problema delle prigioni in Francia. E ho scritto un libro sul tema. Sono giunto alla conclusione che esiste, in materia carceraria, una sorte di legge di ferro: l’opinione pubblica non può accettare che un detenuto abbia una vita migliore del lavoratore più svantaggiato. Nei paesi dove le condizioni di vita delle classi popolari sono dignitose si trovano delle prigioni “umane”. In Scandinavia, per esempio. Al contrario, le prigioni sono generalmente mediocri nelle società con maggiori diseguaglianze. Le cose si stanno muovendo, tuttavia, su impulso della Corte europea dei diritti dell’uomo, una giurisdizione che ho aperto agli imputati francesi.

 

Ho conosciuto da adolescente l'occupazione tedesca. E credevo fosse impossibile, durante la mia vita, sentir gridare nuovamente nelle strade di Parigi "Morte agli ebrei"

 

Come vede la Francia del 2020?

Sono pessimista. Sono preoccupato dalla crisi profonda che si profila: crisi sanitaria, economica, sociale… e dunque politica.

 

Secondo lei, la democrazia è minacciata?

Mi astengo dal fare qualsiasi profezia sui tempi che verranno. Ma non dimentichiamoci che tra le due guerre mondiali, i regimi totalitari sono fioriti in seguito a una grave crisi economica. È un’illusione pensare che la cultura sia sufficiente, da sola, a salvare i popoli dalle vertigini totalitarie. Si pensi al Reich tedesco, che durante la Seconda guerra mondiale ha ucciso milioni di essere umani (compresi i più innocenti, i bambini, e i più inoffensivi, gli anziani). Era un paese che aveva raggiunto un altissimo grado di istruzione, un paese che aveva un amore smodato per la musica e nel quale fiorivano capolavori letterari e premi Nobel… La cultura basta per prevenire il totalitarismo? No. È una lezione che deve farci meditare.

 

Quali battaglie meritano di essere combattute secondo lei?

Tutte le buone cause! E di certo non ne mancano… Non si può dire che le diseguaglianze sociali siano finite, che l’equilibrio e la pace del mondo siano garantiti, che i diritti dell’uomo siano rispettati dappertutto, né che il razzismo e l’antisemitismo non esistano più. Per quanto riguarda l’antisemitismo, non c’è naturalmente nessun rapporto con quello che ho conosciuto da adolescente durante l’occupazione tedesca. Ma credevo fosse impossibile, durante la mia vita, sentir gridare nuovamente nelle strade di Parigi “Morte agli ebrei”. Credevo che la bestia immonda fosse morta. A quanto pare non lo è. Ciò accade nel momento in cui la memoria diventa storia, perché i testimoni stanno morendo…

 

(Traduzione di Mauro Zanon)

 

Di più su questi argomenti: