Un Foglio internazionale
La Francia, l'Europa e la decadenza
Così Valéry Giscard d’Estaing rifletteva sul liberalismo e le sfide del Vecchio continente
Ogni lunedì, segnalazioni dalla stampa estera con punti di vista che nessun altro vi farà leggere, a cura di Giulio Meotti
Nel 2015, l’ex presidente della Repubblica francese Valéry Giscard d’Estaing, scomparso il 2 dicembre 2020 all’età di 94 anni, rispondeva alle domande della Revue des Deux Mondes sull’Europa, sulle questioni di società e sulle riforme.
Revue des Deux Mondes – E’ in Francia, si dice spesso, che è nato il liberalismo politico, padre del liberalismo economico, con Gilbert de La Fayette, Benjamin Constant e Alexis de Tocqueville. Come si spiega il fatto che la Francia sia oggi diventata così restia al liberalismo?
Valéry Giscard d’Estaing – Il più importante di quelli che ha citato è Tocqueville. Il liberalismo economico e politico non è nato in Francia, ma in Gran Bretagna. I britannici hanno un Parlamento da sette secoli e una cultura liberale che prevede il rispetto delle idee altrui. Il liberalismo francese di cui lei parla è un liberalismo orientato verso l’individuo, che si interessa alla libertà solo per se stessi! Il liberalismo al servizio della società e degli altri è più interessante, e i francesi lo sentono meno. Domanda: i francesi sono molto legati al liberalismo politico, che è differente dal liberalismo economico? Non ne sono così sicuro. Nel corso della storia, hanno accettato dei regimi autoritari che hanno funzionato bene e che hanno persino amato. Napoleone I e Napoleone III, fatta eccezione per la fine del suo impero, sono due esempi in questo senso. La Francia rispetta poco la libertà d’espressione. Siamo gli unici ad avere una legislazione più o meno restrittiva, e colui che si smarca da un certo linguaggio rischia di avere problemi con la giustizia. Non tanto tempo fa, nel 1986, è stata votata una legge anti libertà d’espressione promossa dal Partito comunista dell’epoca, e lasciata intatta dai governi successivi. All’inizio, e contrariamente alle interpretazioni date in seguito, la Rivoluzione francese, la cui complessità è stata sottovalutata, non è stata una rivoluzione orientata alla ricerca di libertà, ma una rivoluzione per cacciare i tiranni. Ed è quello che è successo.
Eppure, inizialmente, c’è stata la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino…
Bisogna fare attenzione alle date e sapere di quale rivoluzione si sta parlando. La rivoluzione, con la presa della Bastiglia, è in realtà un evento di portata limitata in Francia, poiché la monarchia resta al potere. E’ accompagnato dall’arrivo al potere di notabili piuttosto liberali. Questi ultimi costruiscono in due anni una Costituzione assai brillante. Scrivono la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino mentre erano ancora in monarchia, ma lo fanno dopo gli americani, ispirandosi al lavoro di Thomas Jefferson. La monarchia costituzionale instaurata avrebbe potuto funzionare. Sono gli eventi esterni, con la coalizione per rovesciare la Repubblica in Francia, che alla fine hanno cambiato le cose! E c’è anche stata quella decisione improvvida, presa dai membri della Costituente, che vietava loro di presentarsi alle elezioni successive. Sono stati sostituiti da persone che avevano molta meno esperienza, e che erano dominati dall’estremismo, un po’ come accade in Grecia oggi. Questi estremisti, peraltro talentuosi, avevano come obiettivo non la libertà, ma la creazione di un regime dittatoriale. A questo punto bisogna riflettere sulla formula “popolo francese”. Noi pensiamo che esista un popolo francese, ma di cosa si tratta esattamente? Se si prendono in considerazione dei paesi che hanno sofferto e che dispongono di una popolazione assai omogenea, si può parlare di un popolo svedese o di un popolo polacco. Parlare di popolo francese è invece più complicato. La Francia si è costruita pezzo dopo pezzo, con apporti relativamente recenti – la Lorena nel Diciottesimo secolo, la contea di Nizza nel Diciannovesimo secolo… Ha una tradizione molto antica, ma doppia: gallo-romana da una parte e germanica dall’altra.
La sua situazione geografica spiega questo fatto. La Francia era il paese d’accoglienza di tutte le immigrazioni europee. Del resto, Jacques Bainville parlava della Francia come di un paese composito…
Esattamente. Ho letto di recente un libro sulla fine dell’Impero romano, nel Quinto e nel Sesto secolo. Si osserva che nel territorio su cui oggi giace la Francia c’era un regno visigoto che aveva Tolosa come capitale, mentre l’est era occupato dai franchi, tribù germanica. L’unità si è dunque realizzata progressivamente. Ma ha creato e formalizzato un’unica entità politica? Non penso. La Francia è fatta di culture un po’ diverse tra loro, anche se ci sono degli elementi in comune, certo. Il più importante è naturalmente la lingua, imposta con successo dal potere repubblicano. È la lingua che ha creato l’unità.
Ma questa varietà iniziale delle popolazioni, con la presenza di tribù, la ritroviamo in altri paesi d’Europa. La differenza tra nord e sud Italia è un buon esempio, così come quella tra la Catalogna e l’Andalusia…
L’Andalusia, in realtà, si chiamava Vandalusia. I vandali hanno girato attorno alla penisola iberica e sono andati nel sud. Il popolo francese viene presentato in maniera un po’ semplificata come un gruppo molto omogeneo. Ma in realtà ha conosciuto due scosse profonde: il passaggio da una civiltà rurale a una civiltà industriale e urbana alla fine del Diciannovesimo secolo, e il terribile dissanguamento della guerra del 1914-1918, vero e proprio trauma per il paese. Nel frattempo, la politica si è allontanata dal popolo. A partire dal Ventesimo secolo, si è creato un mondo politico contenente da duecento a trecentomila persona – amministratori locali, collaboratori degli amministratori locali, milieu politici parigini, etc. – che esprimono il pensiero politico francese. Questo mondo è attualmente distaccato dalla popolazione: fatto unico in un paese democratico, i sondaggi mostrano che gli eletti non rappresentano più realmente la popolazione. Una ragione in più per considerare che le radici della psicologia del popolo francese sono molto individualistiche e non collettivistiche. Il nostro liberalismo non è l’avventura di un popolo come quello degli americani di Thomas Jefferson. E’ un liberalismo volto a proteggere i diritti dell’individuo, non un liberalismo volto a organizzare la società.
Detto in altri termini un liberalismo ripiegato su se stesso invece di un liberalismo aperto sul futuro, come altrove?
L’evoluzione economica che stiamo vivendo presupporrebbe più liberalismo per sopravvivere. Se si creano degli spazi di libertà, anche l’economia germoglia. Se questi spazi non vengono costruiti, l’economia si contrae. Si prenda il caso di Uber: in poco tempo, questa impresa ha creato in uno spazio libertà un’attività redditizia, concorrenziale, che battaglia contro tutti! Immaginatevi cosa potrebbe succedere se, in tutti i campi, fosse concessa più libertà ai francesi! Attualmente la burocrazia è onnipresente nella vita economica, così come nella vita rurale. Per avviare una coltivazione, in Francia, serve un numero inverosimile di documenti burocratici. Se si vuole realizzare qualcosa, la prima azione da fare è ottenere una decisione amministrativa. Prima di agire, devono permettervi di agire! Il nostro liberalismo non è costruttivo e pianificatore. E’ piuttosto una postura in difesa dei diritti dell’individuo.
A giudicare dagli studi di opinione, i francesi sono nostalgici degli anni Settanta, quando lei era presidente della Repubblica. Qual è la ragione del ritorno di grazia di questo decennio?
Probabilmente i francesi erano consapevoli che la competenza era al potere, che il piano era modernizzare la Francia senza provocare una rottura col passato, e ciò dava loro fiducia. E’ stato un decennio di grande vitalità e di grande creatività, con artisti di cui ci si ricorda ancora, e una capacità di portare avanti dei cambiamenti sociali verso la responsabilità individuale (aborto, divorzio).
La regressione del liberalismo non è anche una delle ragioni del pessimismo e del declinismo della Francia? A meno che non sia il contrario?
Senza dubbio! Bisogna prendere in considerazione questa cifra inverosimile, ossia la percentuale di pil che transita verso lo stato; noi francesi battiamo tutti i record: 57,5 per cento. E’ una follia. La cifra normale è attorno al 43 per cento. Gli americani sono al di sotto di questa percentuale, mentre gli altri paesi europei sono tra il 44 e il 45 per cento.
In politica, c’è spesso la domanda, ma non c’è l’offerta…
Lei ha ragione, attualmente non c’è un’offerta, ma c’è una domanda! C’è una nostalgia delle grandi epoche. I francesi sanno che la situazione è meno buona rispetto agli anni Settanta, per esempio. Lo sanno e lo dicono. Vorrebbero ritrovare la competenza al potere. L’idea liberale, ossia l’idea secondo cui il progresso passa da una certa libertà di agire e di riflettere, resta pregnante in Francia. Spero che tornerà al potere.
Perché utilizza la parola “decadenza” piuttosto che la parola “declino”?
Il declino è una fase, è gestibile. La decadenza è sinonimo di distruzione. Siamo nella decadenza: le strutture religiose, educative, familiari, giudiziarie si sgretolano. E le persone lo percepiscono.
Cosa ricorderà la Storia della sua figura?
Non molto, non sono stato presidente abbastanza a lungo. Il rimpianto è quello di un’opera incompleta. Ho fatto il mio lavoro per sette anni, ma avrei avuto bisogno del doppio del tempo. All’epoca, c’era una necessità di trasformare la società politica: questo cambiamento era stato avviato. Le personalità che ho fatto conoscere non erano dei politici. Raymond Barre era professore universitario, Simone Veil magistrato, André Giraud ingegnere.
Che primo ministro avrebbe scelto in caso di rielezione?
Volevo nominare un gollista liberale e europeista. Cercavo un primo ministro che venisse da quel milieu.
(Traduzione di Mauro Zanon)
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