Un Foglio internazionale
Il nuovo male delle immagini
Dall’arte cristiana ai selfie. Secondo Olivier Rey il nostro mondo è arrivato alla saturazione
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Il mondo dei selfie non sarebbe potuto esistere senza il cristianesimo. In una intervista a Valeurs Actuelles, Olivier Rey ci invita a (ri)scoprire le origini e le evoluzioni dell’arte occidentale, per non sentirci sradicati nella nostra terra.
Il mondo in cui viviamo è saturo di immagini e talvolta vive soltanto attraverso di loro. “Il cancro delle immagini è la manifestazione di una potenza religiosa separata dalla religione, una potenza che, quando si rompono gli ormeggi, devasta il mondo”, spiega Olivier Rey. Il filosofo, matematico e saggista francese analizza in “Gloire et misère de l’image après Jésus-Christ” (Éditions Conférence) come siamo passati da “opere sacre realizzate con arte” destinate alla contemplazione e alla devozione a “opere d’arte a carattere religioso” destinate alla collezione e all’ammirazione, che hanno generato in seguito la proliferazione. In un’appassionante inchiesta cronologica, Rey mostra in che modo il cristianesimo, che ha conferito all’immagine uno status e una vera e propria importanza, ha provocato questo ribaltamento.
Valeurs Actuelles – Lei ha fatto un’inchiesta genealogica sull’immagine nella nostra società occidentale. Cosa l’ha spinta a realizzarla?
Olivier Rey – Quindici anni fa, in occasione di un soggiorno all’Università del Cile, mi sono recato al Museo d’arte precolombiana di Santiago de Chile. La visita mi ha lasciato un sentimento ambivalente: sappiamo così poco sulle civiltà che hanno realizzato gli oggetti esposti che i nostri giudizi nei loro confronti sono necessariamente superficiali. Di ritorno in Europa, mi sono reso conto che un fenomeno simile si stava producendo verso un gran numero di opere della nostra tradizione. Per come stanno andando le cose, il nostro rapporto con un retablo medioevale si distingue sempre meno dal rapporto che possiamo avere con delle sculture olmeche. Ci piace o non ci piace, lo troviamo bello o non lo troviamo bello. Ma possiamo accontentarci di queste semplici emozioni? Ho cercato di ridare importanza alla cultura, ai codici, al tipo di sguardo che bisogna avere sulle opere del passato europeo, affinché tornino a dirci veramente qualcosa. Per non sentirci sradicati nella nostra terra.
Lei paragona la proliferazione delle immagini nel Ventesimo secolo all’undicesima piaga d’Egitto, perché?
Cito il filosofo Günther Anders: “Un tempo, c’erano le immagini nel mondo, oggi c’è il ‘mondo delle immagini’, e più precisamente il mondo come immagine, come muro di immagini che intercetta senza sosta lo sguardo, lo occupa senza interruzioni e ricopre senza interruzioni il mondo”. Le immagini, quando proliferano senza misura come accade oggi, si interpongono tra noi e il mondo, impedendoci, di conseguenza, di vederlo. Un esempio fra gli altri: sempre più persone, negli Stati Uniti, chiedono alla chirurgia estetica di rimpicciolire il loro naso. Perché? Perché i selfie, scattati con un apparecchio posto a breve distanza dal volto, fanno apparire il naso più grosso di quanto lo sia realmente. Sulla base di questo esempio caricaturale, si misura fino a che punto, per molte persone, l’immagine sia diventata più reale della realtà stessa.
“Non sappiamo più affrontare correttamente la questione dell’immagine”: cosa intende con queste parole?
Le immagini nono sono semplici cose fra le cose, hanno una potenza propria. Non per nulla la storia del cristianesimo ha conosciuto diverse crisi iconoclastiche: gli uomini che, secoli fa, litigarono per determinare se fosse lecito o meno fabbricare delle immagini, quali immagini e se bisognasse o meno onorarle, non erano dei folli, bensì, al contrario, delle persone molti più coscienti dell’importanza delle immagini rispetto a quanto lo siamo noi. Oggi, l’invasione del mondo da parte delle immagini è la manifestazione di una potenza religiosa separata dalla religione. Una potenza che, quando si rompono i suoi ormeggi, sfugge a qualsiasi controllo.
Il cristianesimo non è la causa, ma il mezzo tramite cui è avvenuta la proliferazione. In che modo?
La Chiesa ha ritenuto che le immagini fossero lecite e, non solo lecite, ma da raccomandare come testimonianza della fede nell’Incarnazione – testimonianza del fatto che la Parola di Dio si è fatta uomo nella persona di Cristo. Il pullulare insensato delle immagini di ogni sorta al quale assistiamo oggi è palesemente contrario allo spirito che animava il settimo e ultimo concilio ecumenico, il concilio di Nicea II, nel 787 – concilio che, al termine della grande crisi iconoclastica che aveva lacerato il mondo orientale, stabilì canonicamente le icone e la loro venerazione. Tuttavia, questo pullulare di immagini non sarebbe potuto esistere senza l’importanza data a esse dal cristianesimo, facendo del Dio incarnato il loro prototipo. Per restare all’esempio dei selfie: anche se i loro adepti lo ignorano, sono i lontani eredi del mondo in cui si venerava il Santo Volto. Il mondo dei selfie è all’opposto dell’insegnamento cristiano, ma non sarebbe potuto esistere senza il cristianesimo.
Quali sono le differenze tra l’icona orientale e l’immagine occidentale?
Nel Vangelo secondo Giovanni, viene detto che “Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui”. La salvezza non passa dall’abolizione del mondo, ma dalla sua trasfigurazione (…). Propongo questa caratterizzazione, certamente troppo schematica: l’icona orientale invita a immergersi nella luce che emana dal mondo trasfigurato, la pittura religiosa occidentale invita a percepire ciò che è terreno come qualcosa che è chiamato alla trasfigurazione. La prima pone il fedele sotto lo sguardo di Dio, la seconda invita il fedele a rivolgersi a Dio.
Ci fu un periodo in cui, nell’arte europea, il movimento verso il naturalismo fu un modo per celebrare il mistero divino. La religione cristiana ha così permesso l’avvento del naturalismo…
Dei motivi religiosi, effettivamente, hanno determinato nella pittura europea un movimento verso un certo naturalismo. A partire dal momento in cui i teologi riconoscevano nella più piccola delle creature una manifestazione della potenza, della saggezza e della bontà di Dio, prestare attenzione al mondo in tutti i suoi dettagli diventava un modo per ringraziare il Creatore. D’altro canto, per molti secoli, l’apologetica e la pastorale dovettero insistere, anzitutto, sulla natura divina del Cristo. Venne in seguito il tempo in cui, nell’Europa medioevale, non fu più necessario convincere i fedeli della divinità del Cristo, né proclamarla contro quelli che la negavano: ciò che era necessario fare, da quel momento in poi, era ricordare l’umanità del Cristo, che in lui Dio si era veramente fatto uomo. Da qui l’evoluzione nel modo di raffigurarlo: più il Cristo e la sua cerchia erano presentati in maniera naturalistica, più il fatto che Dio si era fatto carne nella persona di Cristo diventava sensibile.
Quali problematiche generò, a lungo termine, il naturalismo?
Il principale inconveniente del naturalismo è che fa deperire le risorse simboliche. Per esempio, nella pittura orientale e medioevale, la santità viene espressa da un’aureola di colore oro. Con l’affermazione dei codici del naturalismo, le aureole stesse si sono ritrovate assoggettate alle regole della prospettiva. Col metro del naturalismo, erano condannate a diventare degli strani accessori, o a sparire – e con loro la possibilità di esprimere dal punto di vista visivo la santità. Più in generale, la facoltà di evocare l’invisibile attraverso il visibile si riduce, si impoverisce.
Qual è la differenza tra l’èra dell’immagine e quella dell’arte giunta dopo di essa?
Quando il pittore Duccio di Buoninsegna finì “La Maestà”, nel 1311, un’immensa processione con il vescovo in testa, seguito dal clero, dai magistrati e dai cittadini di Siena, accompagnò il retablo al suono delle campane attorno a Piazza del Campo, prima che fosse sistemato con devozione nella cattedrale. Duccio di Buoninsegna non aveva realizzato un’opera d’arte, aveva realizzato, con arte certo, un’immagine religiosa e sacra. Ho già evocato lo sviluppo del naturalismo nella pittura. Anche se ha risposto anzitutto a dei motivi religiosi, il naturalismo ha portato ad accordare sempre più importanza allo stile del pittore, alla sua virtuosità nella resa degli esseri e delle cose. Ecco uno dei fattori che ci hanno fatto entrare, a partire dalla fine del Quindicesimo secolo, nell’èra dell’arte. Quando si è insediata quest’era, tutte le opere del passato sono state considerate come opere d’arte, anche quelle che, per quanto fossero artistiche, erano anzitutto immagini per il culto. Da qui la constatazione di Huysmans: un retablo esposto in quell’istituzione dell’èra dell’arte che è il museo si trova “spaesato”, e si ha l’“impressione di un’opera d’arte che non ha più una casa, che alloggia all’hotel”.
Come si spiega “l’eclissi quasi totale nell’arte cristiana”, per riprendere Claudel, di questi ultimi due secoli?
La prima ragione è che una grande arte sacra è l’emanazione di una società che è essa stessa unita dal sacro: La Maestà di Duccio di Buoninsegna non apparteneva ai cattolici di Siena, ma a tutta Siena. Altra ragione: una pittura cristiana fedele alla sua vocazione deve essere allo stesso tempo affermativa – Dio si è veramente incarnato nella persona del Cristo –, e negativa – Dio eccede infinitamente tutto ciò che possiamo cogliere di esso. Detto in altri termini, deve raffigurare e allo stesso tempo, attraverso la raffigurazione, aprire verso l’irraffigurabile (…). In più, viviamo ormai in un mondo dove la stragrande maggioranza delle immagini sono fotografiche. Ma nessuna immagine di Dio può avere senso per uno sguardo educato dalla fotografia. E’ per questo motivo che l’eclisse evocata da Claudel ha qualcosa di fatale. Detto questo, i cristiani non sono sprovvisti di immagini, tutt’altro: dispongono di tesori che vengono da un passato più lontano.
(Traduzione di Mauro Zanon)