un foglio internazionale
Nascite, morti e destino
Dimmi che popolazione hai e ti dirò dove vai. La geopolitica si spiega con gli andamenti demografici che rischiano di innescare nuove guerre
Ogni lunedì, segnalazioni dalla stampa estera a cura di Giulio Meotti, con punti di vista che nessun altro vi farà leggere
Nelle analisi di tipo geopolitico, ci concentriamo sul comportamento delle società organizzate in sistemi complessi e definiti geograficamente, altrimenti noti come stati nazionali”, scrive Antonia Colibasanu su Geopolitical Future del 15 marzo. “La lista di attori che plasma il comportamento di uno stato nazionale è lunga e, come dimostra la pandemia da Covid-19, non sempre uguale a se stessa. Nel tentativo di comprendere il modo in cui la pandemia influenzerà la geopolitica, dobbiamo capire ciò che il Covid-19 implica per la demografia.
La demografia di un paese impone allo stesso il suo modello socio-economico, influenzando così il suo rapporto con gli altri paesi del sistema globale. Una popolazione più anziana si traduce in un numero maggiore di pensionati e in un numero minore di lavoratori. Quando le persone vanno in pensione, tipicamente consumano meno. Nel momento in cui una porzione maggiore della popolazione si sposta dal lavoro alla pensione, il fardello che pesa sulla società cresce: ci sono relativamente meno lavoratori che contribuiscono al sistema pensionistico, e una parte della forza lavoro dev’essere impiegata nella cura dei più anziani.
A livello nazionale, questo spostamento dai lavoratori ai pensionati implica che non siano più i consumi privati a trainare la crescita economica, il che vuol dire che un modello di crescita basato sui consumi deve cedere il passo a modelli di crescita basati sugli investimenti o sulle esportazioni. Un incremento degli investimenti privati si può tradurre in una produzione nazionale maggiore, ma se allo stesso tempo i consumi si indeboliscono – come accade nelle società che invecchiano – allora una quota maggiore della produzione dovrà essere esportata.
La Germania è l’esempio perfetto di tutto questo. Più di un quarto della popolazione tedesca, il 28,6 per cento per la precisione, ha oltre 60 anni d’età. Tanto meno i tedeschi consumano e tanto più dovranno esportare, e tanto più denaro sarà a disposizione per essere investito. Allo stesso tempo una forza lavoro che si contrae obbliga Berlino a investire nello sviluppo di una catena globale del valore europea per sostenere la propria industria. Il modello funziona fino a quando non ci sono grosse crisi economiche che investono i paesi da cui origina la domanda (detto altrimenti: i mercati destinatari delle esportazioni), e fino a quando la demografia rimane sufficientemente stabile. Insomma fino a quando il sistema rimane in equilibrio.
Preservare tale equilibrio per la Germania è diventata un’ossessione a partire dalla crisi finanziaria del 2008. Difendere i propri mercati dell’export e la propria catena produttiva – vale a dire: il continente europeo, riunito sotto la bandiera dell’Ue – è una questione esistenziale. E mentre il mercato statunitense invecchiava e si rimpiccioliva, la Germania ha cercato alternative in Asia, il che è voluto dire migliorare le proprie relazioni commerciali col principale mercato asiatico: la Cina. Non solo. La politica dell’immigrazione di Berlino è stata aperta nei confronti di quanti sono interessati a lavorare nel settore manifatturiero, sostenendo così la potenza esportatrice del paese. Quando la crisi dei rifugiati ha investito il paese nel 2014-16, la Germania ha maturato l’opinione che i rifugiati sarebbero potuti rimanere a condizione di integrarsi nel modello socio-economico nazionale. Berlino ha concepito programmi educativi intesi ad assimilare i nuovi venuti nella società, con l’obiettivo di risolvere il proprio problema demografico.
Altri paesi, tra cui Cina e Russia, fronteggiano sfide simili. Anche se i loro problemi economici sono di natura diversa, pure Pechino e Mosca hanno economie che dipendono dall’export e hanno bassi tassi di natalità.
I dati su come la pandemia sta influenzando la demografia degli stati nazionali sono ancora pochi. I numeri in arrivo da Stati Uniti e Unione europea, tuttavia, suggeriscono che l’aspettativa di vita e i tassi di fecondità sono crollati. Negli Stati Uniti, la speranza di vita alla nascita è diminuita di oltre un anno, mentre in Francia di sei mesi. Non è chiaro quanto a lungo dureranno questi effetti, così come non è chiaro quanto durerà la pandemia e quanto il Covid-19 condizionerà nel lungo periodo la vita di chi è stato infetto. Quel che è certo è che gli andamenti demografici nazionali muteranno.
Il mondo ha cominciato a cambiare rapidamente dopo la crisi del 2008. I consumi sono diminuiti, grandi mercati come quello degli Stati Uniti sono diventati più piccoli. Per tante ragioni è tornato in vita il protezionismo, creando così ostacoli a modelli di crescita fondati sull’export. La crisi ha evidenziato lo squilibrio globale tra domanda e offerta, così un lento riequilibrio ha preso il via. Una parte di ciò ha preso le sembianze del conflitto commerciale tra Stati Uniti e Cina. Un’altra manifestazione del processo la vediamo nelle tensioni sociali all’interno dei paesi, tra classi sociali, tra comunità urbane e rurali. Esempio evidente ne è la Brexit, dove la divisione tra realtà urbane e realtà periferiche ha causato in fondo il divorzio del Regno Unito dall’Unione europea. Ma esistono ulteriori esempi di paesi, inclusa la Russia, in cui la vita nelle città è drasticamente diversa da quella nelle campagne. Una caratteristica peculiare di questo processo di riequilibrio è che i governi in genere hanno meno risorse e soprattutto meno risorse da destinare alle parti più svantaggiate e meno urbanizzate dei rispettivi paesi. (…)
Non sappiamo inoltre come Cina o Germania reagiranno al fatto che gli Stati Uniti si stanno ritirando dal loro ruolo di consumatore globale. Non sappiamo come la Russia riformerà la propria economia o come si evolverà l’Ue. Ma tutti questi cambiamenti saranno causati da mutamenti demografici che avvengono a una velocità mai vista. Il “reset” urgente che le nostre società stanno attraversando si tradurrà probabilmente in un aumento delle disuguaglianze, un qualcosa che potrà accrescere le possibilità di conflitto sia a livello locale che internazionale.