Un foglio internazionale
“L'ideologia dominante ha due bastioni, il mondo giornalistico e le università”
Pierre-André Taguieff spiega che la codardia e lo spirito gregario segnano l’indebolimento dello spirito critico. Scrive la Revue des Deux Mondes (24/6)
Pierre-André Taguieff si è fatto conoscere attraverso i suoi lavori dedicati al razzismo, all’antisemitismo, ma anche al populismo, i suoi campi di predilezione da più di trent’anni. In questa intervista, Taguieff fa un bilancio della vita intellettuale francese. Lo storico delle idee analizza la violenza degli scontri attorno alla questione del “neorazzialismo anti bianco” e dell’“islamogoscismo” che ha teorizzato. Taguieff fustiga anche con vigore ciò che chiama “l’impostura decoloniale”.
Come interpretare il fatto che Emmanuel Macron abbia recentemente dichiarato che “dobbiamo decostruire la nostra storia”?
Pierre-André Taguieff – Così come viene utilizzata nel linguaggio politico-mediatico di oggi, la parola “decostruzione” funziona prima di tutto come una bandiera, un segno di adesione e un termine magico. Utilizzandola, si vuole mostrare di essere all’avanguardia del pensiero critico o “progressista” e, più precisamente, che non si è nazionalisti né razzisti. “Decostruire” le tradizioni e le identità significa in sostanza combattere l’essenzialismo. Far sapere che si vuole “decostruire” l’identità nazionale o la storia di Francia significa schierarsi dalla parte dell’apertura all’altro e al mondo contro il ripiegamento su di sé, significa dar prova di una coraggiosa volontà di autocritica dinanzi agli adepti dell’autocelebrazione sciovinista, insomma, che si è situati nel senso della storia, che va dal postnazionale all’instaurazione di una democrazia cosmopolita.
I suoi primi lavori, pubblicati negli anni Ottanta, hanno affrontato le questioni del razzismo e dell’antirazzismo. Aveva intuito che questi dibattiti attorno all’idea di razza avrebbero preso una tale piega nella società francese e come lo spiega?
Dagli anni Settanta agli anni Duemila, gli antirazzisti militanti erano convinti che l’idea di razza umana fosse definitivamente squalificata da parte del sapere scientifico. La maggior parte di loro si rivendicava appartenente a una forma o a un’altra di universalismo per fondare il loro impegno politico e morale contro il razzismo. Ma a sinistra e all’estrema sinistra si era costituito un fronte anti universalista attorno al tema del diritto alla differenza, tradotto politicamente col multiculturalismo o con gli etnoregionalismi (…). A partire dalla metà degli anni Duemila, in Francia, è apparsa una nuova generazione antirazzista, dotata di un armamentario ideologico e retorico importato essenzialmente dai campus statunitensi. L’universalismo era denunciato come un’illusione e un’impostura a servizio del razzismo e dell’imperialismo, mentre le identità “razziali” incarnavano dei valori da difendere e promuovere. Il ritorno della “razza” è avvenuto dunque in nome di un “nuovo antirazzismo” che gli attivisti hanno chiamato “antirazzismo politico”. Fanno riferimento alla “teoria critica della razza” che giustifica il ricorso alla razza in quanto costruzione sociale, così come all’intersezionalità, al neofemminismo misandrico, che denuncia “l’eteropatriarcato”, e alla visione decoloniale del mondo, che invita a decostruire tutto nelle “società bianche”, considerate eredi del razzismo coloniale (…). Nel corso degli anni Duemila, la figura del “razzista” si è trasformata sotto la pressione dei milieu islamisti e dei loro alleati goscisti che hanno strumentalizzato la causa palestinese nel quadro della loro propaganda: il “razzista” per eccellenza ha assunto così le sembianze dell’“islamofobo” (…) La “lotta contro l’islamofobia” è diventata prioritaria e allo stesso tempo il musulmano è stato innalzato a principale vittima del razzismo. Ma all’“islamofobia” si è aggiunto di recente, sul modello dell’antirazzismo statunitense, il motivo delle discriminazioni che riguardano le “persone di colore” e, più in generale, le “minoranze” figlie dell’immigrazione (…). Gli ideologi del postcolonialismo e del decolonialismo sostengono che il razzismo coloniale sia in un certo senso una malattia ereditaria e contagiosa che colpisce i presunti discendenti degli schiavisti e dei colonialisti, che vivono in società neoschiaviste e neocolonialiste dove i “dominati” sono per forza di cose “razzizzati”.
Lei ha molti nemici, soprattutto alla sinistra della sinistra. Come definisce la loro mentalità? Perché sono così potenti nonostante siano molto minoritari nell’opinione pubblica?
L’ideologia cultural-mediatica goscista resta l’ideologia dominante nei suoi principali bastioni, dal mondo giornalistico alle università. Ma è dominante soltanto attraverso il potere di intimidazione che esercita, in ragione del forte conformismo intellettuale e politico che vi regna, orientato a sinistra. La codardia e lo spirito gregario spiegano in gran parte questo indebolimento del pensiero critico, dietro le sue maschere “progressiste” e pseudo antirazziste, espressioni di una “radicalità” di paccottiglia.
Il Foglio internazionale