un foglio internazionale
Quegli eroi lasciati soli davanti all'islamismo che intimidisce e minaccia
Quando un musulmano denuncia il fondamentalismo passa per un traditore. Quanta vigliaccheria dinanzi al coraggio
Perché i musulmani di Francia sono ancora poco numerosi a far fronte all’islamismo in Francia?, si domanda sul Point Kamel Daoud, scrittore algerino. Per il suo romanzo “Mersault, contre-enquête” è stato premiato con il Goncourt nel 2015. La questione è tabù e produce una smorfia: “Perché spetta a me dimostrare la mia francesità?”, si dice. Il “fronte” del rifiuto di giustificarsi scivola verso il fronte del silenzio dopo ogni grande dimostrazione di forza di questo fascismo. L’ultimo episodio è quello della celebre trasmissione televisiva su Roubaix con quel che è costato alla sua presentatrice e a un attore che lavora nel sociale. Per quest’ultimo, il processo è ancor più virulento e la condanna a morte, virtuale per il momento, ancor più radicale. Per quale motivo agli occhi dei giudici assassini? Aver tradito. Che cosa? L’appartenenza, la comunità, l’origine sublimata, la memoria, la guerra decoloniale immaginaria… In Francia, un “musulmano” di confessione o di cultura che denuncia l’islamismo è sinonimo di grande solitudine. Ci si ritrova attorniati da guardie del corpo più che dal fervore e dagli incoraggiamenti dei propri “simili”, sottomessi alla quarantena comunitaria e discretamente disonorati. “Denunciare l’islamismo significa denunciare l’islam”, viene ormai fatto credere. Equivalenza falsa ma accreditata dagli islamisti, forti di una catena di propaganda e di colpevolizzazione molto efficace. In seguito, denunciare e opporsi apertamente all’islamismo significa stare dalla parte della Francia e dunque tradire un’appartenenza.
Ogni lunedì, Un Foglio Internazionale: segnalazioni dalla stampa estera con punti di vista che nessun altro vi farà leggere a cura di Giulio Meotti
Attraverso un ragionamento retrospettivo surreale, si ritiene che la guerra non sia ancora finita e che difendere la cittadinanza francese sia ancora un segno di alleanza con il nemico. Sequenza incosciente, lavorata duramente e apertamente dal discorso islamista, consolidata “intellettualmente” dai radicali del pensiero decoloniale e del senso di colpa eccitante. Si reitera una narrazione comunitaria permanente e molto condizionante. Dunque l’eroe che denuncia l’islamismo è un traditore, è visto attraverso un giudizio di esclusione per cortigianeria interessata verso il nemico.
Si confonde, per assurdo, la rivendicazione di una cittadinanza totale e piena per il musulmano con la difficoltà di ottenerla. Poiché l’escluso non è francese in egual misura, gli si “vende” l’identità religiosa come identità rifugio. L’altra scappatoia più elaborata è quella che oppone all’obbligo di denunciare l’islamismo l’argomento secondo cui denunciarlo sarebbe una forma di auto-stigmatizzazione. Perché spetta a me farlo fra tanti altri? Non sono sufficientemente francese per doverlo provare ancora? Risposta: no. Una cittadinanza, se non ha bisogno di essere dimostrata, deve essere difesa come conquista, e l’islamismo in atto la minaccia. Non è questione di provare che si è un buon musulmano, ma di difendere una repubblica che lo permette e permette il suo contrario. L’islamismo, se è vero che si nutre di adesioni, è vero anche che si nutre di passività. La situazione, comunque, sta un po’ cambiando? Sì, e lo stiamo vedendo. Si parla e si testimonia a volto scoperto, come ha fatto Amine Elbahi a Roubaix per la trasmissione “Zone interdite”. Si firma, si lanciano petizioni, si sottolinea l’esistenza di una distanza, ma bisogna fare ancora di più: dire a voce altra che l’islamismo è un fascismo, non un’identità né una confessione. Contestare apertamente la narrazione comunitaria, la clausola del silenzio e del consenso in nome dell’appartenenza. Dire “no, io sono francese” o “amo questo paese che mi accoglie e lo difenderò strenuamente”, e in questo modo sconfiggere la paura, la vigliaccheria. Vestita di mille argomenti, questa clausola resta ciò che è: una mancanza di coraggio. Quelli che invocano il diritto di praticare l’islam senza dire nulla sull’islamismo di quartiere o internazionale saranno un giorno intimati a essere più musulmani di quello che sono e la pagheranno. Quelli che, musulmani di confessione o di cultura, denunciano la presa in ostaggio islamista dei quartieri francesi, sono degli eroi, ed è proprio questo il problema: dovrebbero essere un fenomeno comune, abituale, generalizzato.
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