La grande ipocrisia
Il caso degli uiguri perseguitati mostra che non c’è più uno spazio pubblico in America per parlare di diritti umani. Ma guai a dirlo: tutti si indignano
Non interessa a nessuno ciò che succede agli uiguri, ha detto Chamath Palihapitiya, un miliardario che possiede la squadra di basket dei Golden State Warriors, il mese scorso in un podcast. “Vi svelo una verità molto dura, e brutta. Questa vicenda non rientra tra le cose che mi interessano”. Così inizia “Siamo tutti realisti”, l’articolo di George Packer dell’Atlantic sullo scarso interesse dell’occidente per i diritti umani. Palihapitiya ha provato a fare marcia indietro, ma è stata tutta una finta. Lui aveva detto la verità: non gli interessa nulla degli uiguri, così come non interessa ai Golden Warriors e nemmeno all’Nba, che riceve miliardi di dollari di sponsorizzazioni da Pechino.
Secondo Packer, nessuno è davvero interessato ai diritti umani. “Tucker Carlson attacca le star della Nba come LeBron James perché denunciano le ingiustizie razziste in America pur evitando di menzionare gli stupri di massa e le torture eseguite nella provincia dello Xinjiang. Ma nemmeno Carlson è realmente interessato ai diritti umani, altrimenti smetterebbe di diffondere la propaganda del dittatore russo Vladimir Putin. Ted Cruz e Mike Pompeo martellano la Cina per il trattamento degli uiguri, ma loro hanno sostenuto le politiche trumpiane a causa delle quali l’America ha chiuso le porte ai rifugiati musulmani; loro sostengono la democrazia a Hong Kong, ma contribuiscono a degradarla negli Stati Uniti, mettendo in dubbio il risultato delle elezioni del 2020. Il presidente Joe Biden e i suoi collaboratori spesso dicono di voler mettere i diritti umani al centro della politica estera americana, ma quando questo approccio è stato messo alla prova per la prima volta in Afghanistan la scorsa estate, è fallito (…) e nel complesso l’amministrazione non ha fatto molto per punire la Cina per la sua brutale soppressione dei diritti umani nello Xinjiang, in Tibet e a Hong Kong”.
Sul tema dei diritti umani c’è una grande ipocrisia, e in una certa misura c’è sempre stata. Il doppiopesismo nella politica estera americana di certo non è una novità, ed esisteva eccome anche ai tempi di Jimmy Carter e Ronald Reagan. “Nonostante ciò – scrive Packer – l’idea che l’oppressione all’estero fosse importante è stata una caratteristica della politica estera statunitense negli ultimi anni della Guerra fredda e durante il periodo successivo, ed è stata usata e abusata da ogni presidente, da Carter e Reagan a Bill Clinton e George W. Bush”. Ma le guerre in Iraq e Afghanistan hanno cambiato tutto e nell’ultimo decennio i diritti umani sono scomparsi dalla politica americana. Dopo quegli eventi, che hanno mostrato la contraddizione tra la retorica della libertà e la realtà dei prigionieri torturati e dei civili uccisi, “nessun presidente può più mandare giovani uomini e donne in guerra invocando i diritti umani. Quando Barack Obama si è rifiutato di punire Bashar al-Assad in Siria per avere ucciso migliaia di persone innocenti con un gas letale, non c’è stata alcuna indignazione da parte dell’opinione pubblica. In privato, Obama aveva detto al suo collaboratore Ben Rhodes che nemmeno il genocidio in Rwanda nel 1994 avrebbe meritato una forte risposta americana. Pur senza annunciare una nuova fase ‘realista’ in politica estera, Obama l’aveva portata in essere”.
L’eclissi del prestigio e del potere americano nel mondo significa che non esiste più alcuno strumento “per evitare che i dittatori gettino le persone nei campi di concentramento”. Gli americani non credono più di potere cambiare il comportamento degli oppressori stranieri, e di conseguenza non pensano più ai diritti umani. “La tutela e il benessere di popoli sconosciuti in luoghi lontani come lo Xinjiang non è più un affare nostro. Di conseguenza, la mente smette di cercare e assorbire notizie su di loro e, in un certo senso, smettono di esistere. (…) Oggi siamo tutti realisti”, conclude Packer. Un tempo la sinistra credeva che la solidarietà fosse un valore universale, e che l’America dovesse promuovere i diritti umani in tutto il mondo. Oggi questa idea è morta, anche se è sopravvissuto un istinto. Gran parte degli americani sentono di doversi interessare al tormento degli uiguri. Se un personaggio famoso dice che il problema non interessa a nessuno, noi ci arrabbiamo. Perché la sua indifferenza rispecchia la nostra.
Questo è il contesto nel quale dobbiamo valutare la storia di Enes Kanter Freedom, un giocatore dei Boston Celtics nato e cresciuto in Turchia, e arrivato negli Stati Uniti nel 2009. La prima cosa che lo ha colpito dell’America è stato il diritto alla libera di espressione, che Kanter ha immediatamente utilizzato per criticare il presidente turco Recep Tayyip Erdogan. Il governo di Ankara si è vendicato: gli ha tolto la cittadinanza, incarcerato suo padre, costretto la famiglia a disconoscerlo. Finché il bersaglio di Kanter era la Turchia, la Nba lo ha lasciato in pace. Però la scorsa estate Kanter ha scoperto il dramma degli uiguri, che è diventata la sua nuova ossessione. L’atleta si è interessato a questa storia, ha incontrato vari sopravvissuti dei campi di concentramento e ha usato la sua grande popolarità per denunciare le vittime del genocidio.
In occasione dell’esordio stagionale di Kanter contro i New York Knicks, l’atleta ha indossato delle scarpe disegnate da un dissidente cinese e colorate con il giallo, blu e rosso della bandiera tibetana, un leone ruggente, un uomo in fiamme e le parole FREE TIBET. Dopo il riscaldamento, si sono avvicinati due funzionari della Nba amici suoi e gli hanno chiesto di togliersi le scarpe, altrimenti non lo avrebbero solamente multato ma potenzialmente estromesso dal torneo. Kanter si è rifiutato di obbedire e li ha mandati a quel paese. Quando è rientrato negli spogliatoi per l’intervallo ha appreso dal suo agente che la tv cinese aveva interrotto la trasmissione dell’incontro. Il divieto nei confronti dei Celtics sarebbe continuato per tutto l’anno. “Ho parlato della Turchia per dieci anni e non ho ricevuto una chiamata. Ho parlato della Cina un giorno e sto ricevendo chiamate a tutte le ore”, ha detto Kanter all’Atlantic.
L’atleta ha continuato la sua campagna contro il regime cinese, e non solo. Il 22 ottobre, in occasione della gara contro il Toronto, Kanter ha indossato delle scarpe nere, rosse e blu con scritto “Stop Genocide Torture Rape Slave Labor” (Fermate il genocidio tortura stupro schiavitù), riferendosi al genocidio degli uiguri. Nell’arco della stagione 2021-2022, ha criticato molti dittatori tra cui Kim Jong Un, Bashar al-Assad, e Mohammed bin Salman. Nel frattempo, il 29 novembre, Kanter è diventato cittadino americano. Ha fatto il giuramento con un nuovo nome: Enes Kanter Freedom. Il crescente attivismo del giocatore è andato di pari passo con un minore impiego sul campo di gioco. Secondo Kanter, questa è una conseguenza della sua crociata anti cinese. A quanto pare, i compagni lo sostengono in privato ma non si esprimono in pubblico. “Forse non ne sanno abbastanza – ha detto l’atleta all’Atlantic – ma credo che abbiano paura di perdere soldi, perdere affari, perdere accordi commerciali… E, inoltre, spesso non gli interessa abbastanza ciò che accade al di fuori dall’America”.
Secondo Packer, l’indifferenza è la ragione più importante. In molti casi, non esiste alcun conflitto tra soldi e princìpi, perché questi ultimi sono scomparsi. Sarebbe ingenuo credere, come ha affermato Kanter Freedom, che non esiste alcun legame tra i diritti umani e la politica. La battaglia dell’atleta è stata strumentalizzata dai commentatori di estrema destra come Tucker Carlson, che hanno distorto il suo messaggio, sostenendo che Kanter stesse dicendo ai suoi colleghi della Nba, la maggior parte dei quali afroamericani, “di smetterla di criticare il più grande paese al mondo”. Inoltre, esiste un filo rosso che lega il comportamento delle compagnie americane in Cina alle scelte statunitensi in materia di politica estera, e al modo in cui vengono strumentalizzate in patria.
Un simbolo grezzo e improvvisato come un paio di scarpe colorate è esattamente ciò che dobbiamo aspettarci in un momento in cui nessuno si interessa al destino degli uiguri. Non esiste un dibattito nazionale in cui inserirsi, un’istituzione a cui aderire, un terreno in cui questa campagna solitaria può trovare spazio. Kanter deve andare avanti da solo, partita dopo partita. L’ultimo giorno della campagna acquisti, i Celtic lo hanno venduto agli Houston Rockets, la squadra che ha costretto il suo direttore generale a ritirare un tweet in sostegno dei manifestanti pro democrazia a Hong Kong nel 2019. Nel giro di pochi minuti anche i Rockets si sono liberati del giocatore, e nessuna squadra dell’Nba gli ha offerto un contratto. “Oggi l’Nba ha ottenuto ciò che voleva, relegando l’atleta fuori dalla nostra vista e dalla nostra mente, proprio come gli uiguri. Se Kanter Freedom, che ha già sacrificato la sua famiglia e la sua carriera, non vuole arrendersi, dovrà trovare uno strumento diverso da un paio di scarpe da ginnastica colorate per catturare l’interesse degli americani”.
(Traduzione di Gregorio Sorgi)
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