un foglio internazionale
Putin non sarà un pazzo, ma è intossicato dalla negazione della realtà
Il capo del Cremlino è accecato per ragioni che rientrano in un processo psicosociale preciso, secondo lo storico Stéphane Courtois, scrive Le Figaro
Ogni lunedì, segnalazioni dalla stampa estera con punti di vista che nessun altro vi farà leggere. A cura di Giulio Meotti
La guerra scatenata dalla Russia contro l’Ucraina ha lasciato stupefatti e paralizzati la maggior parte degli osservatori che ripetono senza sosta: “Non me l’aspettavo”. Dopo tre settimane di guerra, che doveva durare tre giorni, “l’inimmaginabile” è un mistero. Vladimir Putin è impazzito? Jacques Julliard ha sottolineato in queste pagine l’inanità di tale interpretazione. E, da storico, penso che ci troviamo di fronte a un processo psicosociale, ossia a un delirio logico. E’ un disturbo sintomatico nei dittatori del Ventesimo secolo a forte carica ideologica, a cominciare da Lenin – fondatore del primo regime totalitario della storia, che si reggeva su una fantasmagoria marxista radicale. Il loro discorso e la loro politica erano logici se si intende con questo termine che adeguavano i mezzi a degli obiettivi politici. Tuttavia, questi obiettivi erano prodotti non dalla follia ma dal delirio secondo la definizione che dà di questo termine il dizionario Robert: “Disturbo psicologico di una persona che ha perso il contatto con la realtà, che percepisce e dice delle cose che non concordano con la realtà o l’evidenza, a prescindere dalla loro coerenza interna”.
Follia e delirio, termini considerati sinonimo nel linguaggio corrente e spesso impiegati indistintamente, sono in realtà due cose molto diverse tra loro. Vladimir Putin ha vissuto in un mondo sovietico ben descritto da George Orwell nel suo famoso romanzo “1984” dove il discorso mascherava continuamente la realtà. Il terrore di massa era chiamato “giustizia rivoluzionaria”, la dittatura del proletariato diventava “potere della classe operaia”, l’oscurantismo era “cultura socialista”, la guerra diventava “pax sovietica”. Fin dai suoi 16 anni, Putin sognava di appartenere al Kgb, poi ne è diventato membro, prima di essere formato al mestiere di spia e imparare, in modalità orwelliana, lo sdoppiamento di una personalità vivente in una realtà parallela. Tuttavia, a quest’uomo che non brillava “né per gusto né per spirito”, seguendo le parole di Brassens, questa esistenza procurava il godimento di appartenere al Partito comunista che dirigeva la seconda superpotenza mondiale, e al Kgb, il braccio armato di questo partito, che esercitava il terrore in totale impunità. Lenin non aveva forse proclamato che “un buon comunista è allo stesso tempo anche un buon cekista”?
Il modesto Vladimir Putin era dunque abituato a vivere nel mondo della “felicità totalitaria” (Bernard Bruneteau) che gli esplose improvvisamente in faccia con la caduta del muro di Berlino nel 1989, poi nel 1991 con l’implosione dell’Urss. Il suo mondo, sia quello esterno – la sua vita da spia nella Repubblica democratica tedesca – sia quello interno – il senso di onnipotenza del cekista e di legittimità storica del comunista – scoppiò in mille pezzi e lo lasciò senza punti di riferimento. Le casualità della vita – la sua formazione a San Pietroburgo dove seguiva i corsi del professore di diritto Anatoli Sobcak, sindaco della città dopo il 1991 – e il potere occulto ma mantenuto del Kgb, gli permisero di ritrovare una posizione nella direzione dell’Fsb, prima di conoscere nel 2000 un’ascesa folgorante al vertice della Russia. Il traumatismo psichico non è stato per questo meno profondo e ha generato in lui una sofferenza intensa che confessò fin dal 2005: “La caduta dell’Urss è la più grande catastrofe geopolitica del secolo scorso”. E’ stata anche una catastrofe personale e, per ridare coerenza alle sue vite sovietiche e post-sovietiche, Putin è entrato in un processo delirante ben definito da Eugène Minkowski, psichiatra nato a San Pietroburgo nel 1885: “In fondo, la forma specifica dell’idea delirante non è altro che un tentativo del pensiero, rimasto intatto, di stabilire un legame logico tra i differenti mattoni dell’edificio in rovina”.
Per sfuggire alla cruda realtà, Putin si è allora adoperato per ricostruire un edificio fantasticato e incentrato su tre deliri logici. Il primo punta a ripristinare la grandezza geopolitica dell’Urss e si regge sulla negazione assoluta della sconfitta storica del comunismo che nel 1989 ha perso la Guerra fredda e che nel 1991 sfocia nel fallimento eclatante dell’assurdo sistema di rifiuto della proprietà privata e del regime del terrore di massa inaugurato il 7 novembre 1917 (…). Putin ha costruito il suo secondo delirio attorno alla mitologia della grandezza dell’impero degli zar, unendo autocrazia e totalitarismo (…). Il terzo delirio rimanda alla fantasia dell’unità dei “fratelli” e “popoli-fratelli” russi e ucraini (…). Putin si è autointossicato con i suoi tre deliri che lo hanno spinto a commettere degli errori politici irreparabili: in nessun momento ha immaginato la resistenza armata e di massa del popolo ucraino, né la risposta unitaria dell’Unione europea, né la quasi unanimità dell’Assemblea generale delle Nazioni unite contro di lui, né la potenza delle sanzioni a cui la Russia si sarebbe esposta. L’odio ideologico congenito di Putin nei confronti della democrazia costerà molto caro all’immagine e alla potenza della Russia nel corso del Ventunesimo secolo.
Il Foglio internazionale