John F. Kerry e Xie Zhenhua, inviati speciali per il clima di Stati Uniti e Cina, all’ultimo meeting di Davos (foto LaPresse) 

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Le tensioni sul clima tra America e Cina stanno dando vita a un nuovo conflitto

Manca la fiducia tra Cina e Stati Uniti, convinti entrambi che il rivale non onorerà le promesse sulle emissioni. L’analisi di Eyck Freymann

Le tensioni sul clima tra America e Cina stanno dando vita a un nuovo conflitto geopolitico – non una Guerra fredda, ma una guerra riscaldata.

 
“La delegazione cinese ha ‘mandato a monte’ i negoziati, ha gridato il primo ministro australiano Kevin Rudd, dopo l’ennesimo giorno di immobilismo. Era un venerdì pomeriggio nel dicembre 2009, e la conferenza sul clima COP 15 stava andando a rotoli. Il presidente americano Barack Obama, la cancelliera tedesca Angela Merkel, il segretario generale dell’Onu Ban Ki-Moon, e altri leader globali si erano riuniti in un ultimo tentativo di trovare un accordo. Erano seduti uno di fianco all’altro su sedie scomode. Il tavolo era pieno di bicchieri da caffè semi vuoti e piante, giornali scompaginati, evidenziatori gialli, e panini alla mozzarella ammosciati. Il premier cinese Wen Jiabao era assente e ha mandato il suo sottoposto, He Yafei, a sedersi davanti a Obama ma non lo ha autorizzato a negoziare. I leader globali, assonnati, si sono sentiti insultati. Molti di loro hanno perso la pazienza e se ne sono andati via”. Così inizia il saggio dell’analista geopolitico Eyck Freymann sul sito The Wire China sulla competizione globale sul clima tra Cina e Stati Uniti. L’autore traccia un parallelo con quello che sarebbe successo otto anni dopo al giardino delle rose della Casa Bianca: il successore di Obama, Donald Trump, avrebbe mostrato un disprezzo ancora maggiore per la diplomazia del clima, annunciando il ritiro degli Stati Uniti dagli accordi di Parigi.

 


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Per molti anni, sostiene Freymann, la narrazione dominante ha descritto il cambiamento climatico come una crisi che la comunità internazionale deve risolvere – e che può risolvere solo se i leader globali trovano la volontà politica per cooperare e condividerne il costo. In realtà, molti esperti e negoziatori sul clima hanno ammesso che la situazione è più complessa. “Per tre decenni, la bonomia delle conferenze dell’Onu sul clima ha mascherato una guerra geopolitica ferocemente competitiva. Oggi, tra la Cina e gli Stati Uniti c’è una rivalità crescente che si è estesa dal ramo economico a una competizione più ampia per la supremazia globale. Con l’aumentare delle tensioni, sta diventando sempre più difficile trovare una soluzione alle cause strutturali dell’immobilismo sul clima”.
Il problema di fondo è che al momento non esiste alcuna cooperazione bilaterale tra Cina e Stati Uniti, i primi paesi al mondo per emissioni. Nessun accordo globale sul clima ha alcuna possibilità di andare in porto senza il loro sostegno. Tra i due paesi c’è una sostanziale mancanza di fiducia: entrambi sono convinti che il proprio rivale non sia intenzionato a onorare le promesse sulla decarbonizzazione. Né l’America né la Cina vogliono adottare delle politiche che possono rallentare la propria crescita economica, dando un vantaggio competitivo all’avversario. Una delle poche cose su cui cui democratici e repubblicani sono d’accordo è che non può esserci alcun accordo globale sul clima finché la Cina non farà delle promesse più ambiziose. Al contrario, i negoziatori cinesi sostengono che la responsabilità ricade sulle economie sviluppate, in primis gli Stati Uniti.

  
La diplomazia del clima è nata trent’anni fa con l’accordo di Rio, che ha creato un principio diventato nel frattempo molto controverso: le cosiddette “responsabilità comuni ma differenziate”. All’epoca c’era un divario economico enorme tra l’occidente – che ha accettato di essere all’avanguardia nella lotta contro il cambiamento climatico – e i paesi in via di sviluppo, le cui priorità erano lo sviluppo sociale e la lotta alla povertà. Ma negli ultimi trent’anni il mondo è cambiato: oggi Cina e India sono il primo e il terzo paese a contribuire all’inquinamento globale, mentre la Cina emette più anidride carbonica di Stati Uniti, Unione europea e Giappone messi insieme. Ciononostante, Pechino insiste di non avere alcun obbligo morale o legale a ridurre le emissioni. Obama ha provato in tutti i modi a fare cambiare idea al governo cinese, ma i suoi sforzi non hanno prodotto un risultato immediato, come si è visto dalla fumata nera al summit di Copenhagen.

 
Nell’inverno del 2013, Pechino ha raggiunto dei livelli record di smog che hanno alimentato proteste e costretto il governo cinese ad agire. Obama ha visto un’apertura e dopo mesi di negoziati ha convinto Pechino a firmare una dichiarazione congiunta sul clima. Per la prima volta, la Cina ha promesso di raggiungere il picco di emissioni e di trarre il venti per cento della sua energia da fonti rinnovabili entro il 2030. Questa promessa avrebbe richiesto degli investimenti enormi date le dimensioni dell’economia cinese e il tasso di crescita stimata. Poi è arrivato l’accordo di Parigi, un “trionfo diplomatico” ma solamente un punto di partenza per risolvere il problema del cambiamento climatico.

 
L’elezione di Trump nel 2016 ha cambiato tutto. Nel luglio 2017, il presidente si è ritirato dagli accordi di Parigi usando come giustificazione la protezione dell’economia americana dalla concorrenza sleale della Cina. “La Cina può aumentare le emissioni per un gran numero di anni – tredici”, disse Trump annunciando il ritiro americano: “Noi no… questo accordo non è tanto sul clima quanto sul fatto che gli altri paesi acquisiscano un vantaggio finanziario sugli Stati Uniti”.

 
Non è chiaro quale fosse il problema di fondo – se Trump dubitasse dell’esistenza del cambiamento climatico, se vedesse il tema in termini geopolitici o se semplicemente non fosse interessato. Sta di fatto che, spiega Freymann, nei suoi anni alla Casa Bianca la cooperazione sul clima tra America e Cina è stata sospesa. 

 
E infine arriviamo a Biden, che è rientrato negli accordi di Parigi e ha rimesso la diplomazia del clima nelle mani dei negoziatori dell’era Obama, che hanno degli obiettivi più ambiziosi rispetto a Parigi. A frenare i progetti del presidente ci sono dei fattori di politica interna: molti dei suoi obiettivi non sono fattibili senza gli investimenti corposi nell’energia pulita previsti dal programma Build Back Better, ancora arenato al Senato. Inoltre, i negoziatori stranieri vedono una tendenza pericolosa a Washington: le amministrazioni democratiche negoziano accordi sul clima, e i loro successori repubblicani si sfilano. Questo comporta una perdita di fiducia a Pechino, e non solo, nei confronti dell’America.

 
La tesi di fondo di Freyman è che i cinesi utilizzano il cambiamento climatico come uno strumento geopolitico: promettono delle azioni per fermare il riscaldamento globale in cambio di concessioni su altri fronti. Al contrario, Washington vuole slegare questo tema da tutto il resto, ma la Cina non è disposta ad accettare questo principio. “L’America vuole che la cooperazione sul cambiamento climatico sia un’oasi nel rapporto. Tuttavia, se l’oasi è circondata da deserti, prima o poi anche l’oasi verrà desertificata”. 

 
Di conseguenza, sia a Washington che a Pechino è arrivata l’ora della realpolitik: entrambi i paesi hanno accettato che con ogni probabilità si andrà oltre il limite dei 1.5 gradi previsto dagli accordi di Parigi. Inoltre, le priorità di entrambi i governi sono cambiate, tanto che ora stanno prestando maggiore attenzione a come convivere con il riscaldamento globale. Così come la geopolitica ha esacerbato la crisi climatica, la crisi climatica ha accelerato la competizione geopolitica, dall’Artico al Pacifico del sud. Un nuovo tipo di competizione geopolitica sta emergendo – non una Guerra fredda, ma una guerra riscaldata (Warming War). Una guerra senza vincoli non sarebbe un disastro, a maggior ragione se producesse l’innovazione e accelerasse l’adozione di tecnologie a bassa emissione. Ma questo porta con sé dei rischi enormi e imprevedibili. La superpotenza che si adatta più velocemente al cambiamento climatico può acquisire un vantaggio strategico sul proprio rivale. Ci sono poche norme internazionali, accordi e istituzioni per gestire questa competizione ed evitare che la competizione geopolitica degeneri in un confronto diretto. “Dovremmo lavorare per raggiungere un accordo sulle emissioni, che sono la causa di fondo del cambiamento climatico”, sostiene Dennis Blair, ex direttore del National Intelligence. “Ma dobbiamo essere realisti su ciò che dovremmo fare se questo non avvenisse. Gli Stati Uniti devono pensare seriamente a un piano B. Questo significa adattarsi”.

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