Joe Biden (Ansa)

Un foglio internazionale

Cosa vede Biden rivolto a est

Malgrado la guerra in Ucraina, la priorità del presidente resta la sfida con Pechino. L’Atlantic spiega la strategia asiatica della Casa Bianca

"La più grande sfida strategica a cui ci troviamo di fronte dal punto di vista geopolitico è l’ascesa della Cina e il pericolo che pone all’ordine internazionale basato sulle regole. Questa è una sfida che si manifesta non solo nell’Indo-Pacifico ma anche a livello globale”. L’analisi di Michael Schuman dell’Atlantic sulla svolta verso est dell’Amministrazione Biden inizia con questa frase del consigliere alla sicurezza nazionale Jake Sullivan. 

Questa tendenza va avanti da molti anni anche se è stata ridimensionata da alcuni eventi di portata storica – come la guerra al terrore dei primi anni Duemila, o l’invasione russa dell’Ucraina – che hanno costretto l’America a concentrare le proprie risorse altrove. “Di conseguenza, gli sforzi di Washington non sono stati all’altezza di ciò che l’Asia avrebbe meritato”. Il presidente Biden vuole porre fine a quest’ingiustizia, rafforzando il ruolo di Washington nell’Indo-Pacifico. E stavolta non verrà distratto da nulla. Il consigliere principe del presidente sull’Asia, Kurt Campbell, spiega all’Atlantic: “L’amministrazione Biden, che ha già visto questo film, ha indicato che malgrado le difficoltà in medio oriente e in Europa, la grande sfida nel lungo termine sarà nell’Indo-Pacifico”. 

 

Una delle ragioni del coinvolgimento americano in Asia è “l’ascesa della Cina”; la crescita nel potere e nelle ambizioni di Pechino rende questa regione cruciale per difendere l’influenza globale dell’America e il sistema di rapporti, norme e ideali che la sostengono. “Certo, i decisori americani non hanno mai ignorato l’Asia nella seconda parte del Novecento. L’America è andata in guerra contro Corea e Vietnam, e i suoi rapporti con la Cina hanno plasmato l’economia globale e la politica internazionale negli ultimi cinquant’anni. Tuttavia, per tanti anni l’establishment americano si è curato soprattutto dell’Europa, il centro della competizione con la Russia ai tempi della guerra fredda, e il medio oriente, la terra del petrolio, dei rivoluzionari islamici e delle guerre costose”.

 

Ma oggi è l’Asia che ricopre un ruolo strategico, per varie ragioni: “Qui è dove le compagnie americane trovano il bacino di consumatori della nuova classe media a cui vendere i loro prodotti; qui vengono costruiti i chip, le batterie per i veicoli elettrici e altri beni indispensabili per l’economia americana. Allo stesso tempo, dall’Asia provengono anche i rivali alla supremazia globale di Washington. Negli anni Ottanta, in molti credevano che il Giappone avrebbe sostituito l’America come prima economia mondiale. Oggi, il rivale numero uno dell’America è la Cina. Anche se Putin resta un’importante minaccia alla sicurezza, i leader cinesi sono quelli con il denaro e il potere per fare terminare la Pax americana e soppiantare gli Stati Uniti come superpotenza globale”. 

Diversi presidenti si sono lentamente adeguati a questa nuova realtà. Partiamo da Barack Obama e dal cosiddetto “pivot to Asia”, un cambio di paradigma finalizzato a giocare un ruolo più importante nella regione asiatica. Ma per via del caos in Iraq, Afghanistan, e Siria, oltre che alla riluttanza americana ad arginare il comportamento minaccioso di Pechino nel mare cinese del sud, questa strategia è stata solo “un primo passo piuttosto che una transizione fondamentale”. Il presidente Donald Trump ha sabotato questo progetto geopolitico, tirandosi indietro dalla Trans-pacific partnership, un potenziale accordo commerciale tra Usa e alcuni paesi dell’Indo-Pacifico, all’inizio del suo mandato. Trump ha sviluppato una versione tutta sua del “pivot asiatico”, sostituendo il dialogo con la Cina con una competizione tra superpotenze. Nonostante Trump fosse ossessionato dalla guerra commerciale con Pechino, non aveva un grande interesse per il resto della regione, fatta eccezione del rapporto tribolato con il dittatore nordcoreano Kim Jong un. 

 

Biden ha adottato un approccio pragmatico – scrive Schuman – prendendo in prestito alcuni aspetti della linea dura di Trump nei confronti della Cina, dando nuova linfa alla diplomazia regionale di Obama, e mischiando alcune idee sue per dare vita a una nuova campagna della diplomazia asiatica”. Ecco alcuni esempi concreti: il patto Aukus con Regno Unito e Australia per fornire tecnologia nucleare sottomarina all’esercito di Canberra; un coinvolgimento americano più forte nel Quad, il dialogo sulla sicurezza tra India, Australia, Giappone e Usa; avere ospitato il primo summit a Washington con i leader dei paesi del sud est asiatico. Sullivan spiega all’Atlantic che il piano di Biden non è una copia della strategia obamiana; una delle differenza principali è “il legame tra il coinvolgimento e i rapporti in Europa, e la posizione strategica nell’Indo-Pacifico”. Il consigliere alla sicurezza nazionale aggiunge che “non ci stiamo spostando da un posto all’altro, ma stiamo aumentando la nostra posizione dappertutto”. 

 

Tuttavia, il rischio è che la competizione sempre più intensa tra Washington e Pechino possa aumentare i rischi di un conflitto. La visita della speaker della Camera Nancy Pelosi a Taiwan ne è la prova: l’esercito cinese ha reagito mettendo in atto delle esercitazioni militari attorno all’isola, che Pechino considera una sua regione. La strategia di Biden presuppone “un’elevata presenza militare” americana nell’Indo-Pacifico, come ammette lo stesso Sullivan. “Crediamo di potere ottenere sia un aumento nella nostra presenza militare al fianco orientale della Nato che una presenza più forte nell’aria, sott’acqua e nell’oceano Pacifico, sfruttando diversi elementi del potere americano”. Molti sostengono che la strategia americana sia dettata dall’obiettivo di contenere la Cina, ed evitare che scalzi l’America come prima potenza mondiale. Ma Campbell, il consigliere di Biden per l’Asia, smentisce questa lettura: “Il nostro sforzo più importante deve essere dimostrare di potere lavorare con gli alleati e i partner per sostenere quello che chiamo il sistema operativo dell’Indo-Pacifico (…) che è stato molto efficace, e ha portato una pace e prosperità senza precedenti”. 

 

I due alti funzionari dell’amministrazione Biden – Sullivan e Campbell – spiegano che, malgrado gli alti e bassi, Washington deve continuare a mantenere un dialogo su alcuni temi con Pechino. Questo probabilmente risulterà in un summit in presenza tra Biden e Xi Jinping entro la fine dell’anno. Ciò che entrambi i paesi non si possono permettere è un conflitto – per questo l’America è impegnata a costruire dei meccanismi per aumentare i livelli di fiducia e gestire le comunicazioni in tempi di crisi. Questi strumenti vengono descritti come dei “guardrail”, e sono fatti per evitare che la competizione si trasformi in un conflitto. 

Una delle incognite è quanto sia sostenibile la strategia di Biden. Le pressioni politiche domestiche potrebbero spingerlo a scendere a compromessi con la Cina, o a interagire con la regione nel suo insieme. I negoziati per l’Indo-Pacific Economic Framework, ad esempio, sono incentrati sull’imposizione di regole comuni per le aziende digitali, la creazione di catene di approvvigionamento sicuro, e altre aree importanti del commercio regionale. Ma saranno assenti dall’accordo alcuni temi tradizionali come la riduzione dei dazi e l’apertura dei mercati, che rischierebbero di aggravare il sentimento anti globalista in America. 

Ma l’indomita Casa bianca di Biden crede che l’America non solo possa competere con la Cina in Asia, ma possa addirittura vincere. Secondo Sullivan, molte delle assunzioni su chi vincerà la sfida tra America e Cina non prendono in considerazione alcuni sviluppi che sono favorevoli alla posizione americana, e ostili a quella cinese. Il consigliere di Biden sostiene che un’egemonia cinese in Asia resta uno scenario “poco plausibile”. La più grande difficoltà a cui si trova di fronte l’America potrebbe essere l’ambivalenza di molti leader asiatici. Da un lato, continuano a vedere l’influenza statunitense nella loro regione come un contrappeso necessario alla Cina. Dall’altra parte, non vogliono alienare Pechino. Questo significa che Biden deve muoversi molto delicatamente. 

 

Nessun paese vuole essere “interamente dipendente dalla Cina”, sostiene nelle battute conclusive l’ex ministro degli Esteri di Singapore George Yeo. “Quindi gli Stati Uniti sono naturalmente i benvenuti”. Allo stesso tempo - mette in guardia Yeo - Washington non deve strafare. “Se l’America forza una scelta, non credo che la risposta sarà quella desirata”.

 

(Traduzione di Gregorio Sorgi)
 

Di più su questi argomenti: