Si scoprono e riadattano favole provenienti dal resto del mondo (“Mulan”, 1998)

un foglio internazionale

C'era una volta Disney

È uno dei maggiori simboli del soft power americano e oggi la cultura che si manifesta attraverso le sue principesse è diventata più divisiva e moralista

"Domenica scorsa, mentre centinaia di migliaia di persone erano in fila per vedere il feretro della nostra regina nella camera ardente, io ero in una coda meno lunga, per vedere un’altra regina in carne e ossa”. L’autrice Mary Harrington si riferisce all’adattamento teatrale del film Frozen, che l’ha emozionata e commossa. La commentatrice resta colpita da un fatto: tutti gli attori sul palco parlano con un accento americano, nonostante siano britannici. “Il Theatre Royal Drury Lane si trova, naturalmente, nel Regno Unito. Frozen è ambientato in un paese inventato con delle caratteristiche nordiche. Allora, perché quell’accento?”, si domanda Harrington nel suo commento per il sito UnHerd. 

  


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Secondo lei, questo aneddoto è una dimostrazione del soft power statunitense, di cui Disney è uno dei maggiori simboli. Questo “colosso culturale” è il perfetto esempio del sogno americano; e l’evoluzione delle principesse della Disney spiega com’è cambiato negli anni questo concetto. Le prime due – Biancaneve (1937) e Cenerentola (1950) – sono un adattamento di favole europee; la trasposizione di un mito del Vecchio Mondo nel Nuovo Mondo. La nascita della Disney coincide con il principio del dominio globale americano – scrive Harrington –. Siamo nel 1918, e il presidente Wilson reagisce al bagno di sangue in Europa con i Quattordici Punti, il seme che avrebbe dato vita all’ordine internazionale basato sulle regole e, qualche decennio dopo, all’egemonia statunitense. Disney nasce cinque anni dopo i Quattordici Punti, nel 1923 e diventa la punta di diamante della cultura americana nel mondo. “Dinanzi alla triste realtà dell’Europa del dopoguerra, non è difficile capire perché la stravaganza, l’informalità e la prosperità dei prodotti e dell’intrattenimento americano fossero così attraenti”, scrive UnHerd. 

 

Con la caduta degli imperi europei, l’America ha iniziato a credere di più in sé stessa e anche Disney ha iniziato a riadattare – anziché solamente trasporre – le favole del Vecchio Mondo europeo. Dopo la morte di Walt e Roy Disney rispettivamente nel 1966 e nel 1971, le principesse sono scomparse per una ventina d’anni, finché non è finita la storia. Un anno dopo il crollo dell’Unione Sovietica, la “macchina delle principesse” è ripartita con un’autostima senza precedenti; la Disney era diventata il più importante veicolo culturale della prima potenza mondiale. Le storie classiche sono state riadattate al mito americano dell’autodeterminazione in voga all’epoca. La sirenetta (1990) capovolge la favola di Hans Christian Andersen: una storia sulle tragiche conseguenze del cercare di essere ciò che non sei, diventa una storia sul superamento dei vincoli familiari per diventare ciò che vuoi. Ma per rendere il mito dell’“autodeterminazione” davvero universale bisognava nascondere le origini europee delle storie, scoprendo e riadattando favole provenienti dal resto del mondo: Notti d’Oriente (diventato Aladdin, nel 1993) o La ballata di Mulan (Mulan, 1998). 

 

“Ma questa stagione è stata archiviata. Oggi, anche le principesse della Disney si stanno politicizzando. Proprio quando la guerra al terrore ha trasformato la diffusione della democrazia in una mera questione di imposizione con la forza, anche la cultura americana che si manifesta attraverso quelle principesse è diventata meno unificante, meno esuberante e allo stesso tempo più divisiva e moralista. Questo ha coinciso con una lenta stagnazione nella cultura e nei costumi americani, specialmente per chi sta in fondo alla catena alimentare, ovvero la classe media che si è rimpicciolita dagli anni Settanta – nonostante i redditi dei più ricchi siano continuati ad aumentare”. Negli ultimi anni, lo sguardo della Disney si è rivolto verso l’interno, verso gli americani, in particolare quelli che continuano a provare un interesse per ciò che resta dell’eredità culturale europea. Nel frattempo, questo “colosso del soft power” è stato inevitabilmente trascinato nelle guerre culturali, attraverso il conflitto tra chi lavora per Disney – in gran parte progressisti – e i consumatori che non sono necessariamente sulla stessa lunghezza d’onda.

 

Un colosso culturale della portata di Disney poteva restare apolitico, sostiene l’autrice, solamente finché l’impero americano si trovava d’accordo sui fondamentali. Ma la guerra culturale ha dato vita a una battaglia – segnata da tanti piccoli scontri che hanno trascinato l’azienda nell’agone politico – per impadronirsi delle principesse. “(…) Il nuovo impero americano sta cercando di rompere ogni legame culturale con l’eredità del Vecchio Mondo e gli stereotipi che gli sono associati. Ma è possibile scrivere una storia di principesse libera dagli stereotipi? Dopo tutto, cosa sono le storie se non stereotipi che abbracciamo con la nostra immaginazione? E non è chiaro se un’America che soffre da un’inabilità autoinflitta di raccontare delle storie avvincenti può mai essere influente sullo scenario internazionale come la versione novecentesca che ha portato il mito del ‘Land of the Free’ all’egemonia globale”. 

 

Ma nonostante tutto, spiega l’autrice, Disney e l’impero americano hanno ancora vita lunga. La regina Elisabetta II sarà pure stata la monarca più longeva – scrive Harrington – ma i cuori dei bambini appartengono alla regina Elsa. E anche se il sogno americano è in declino, ci sono voluti decenni per fare crollare l’impero britannico. Gli avamposti coloniali sono gli ultimi ad abbandonare i costumi imperiali; ad esempio, al giorno d’oggi esistono tante scuole inglesi lontano dall’Inghilterra, e la lingua viene parlata in tutto il mondo. “Sospetto che quando l’impero americano sarà solamente un ricordo sbiadito, continueranno a esserci delle bambine in luoghi remoti che giocano a fare le principesse di ghiaccio indossando dei vestitini blu pieni di brillantini”. (Traduzione di Gregorio Sorgi)

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